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Il Generale delle SS sulla via Appia
La via Appia e il Generale... Era ancora il mese di Maggio del 1944 e già faceva un gran caldo. Le rose nel giardino fiorivano ed appassivano rapidamente come a voler dire che la natura avesse fretta. I bollettini di guerra trasmessi da Radio Londra davano per certo che la guerra stesse per finire. Tutti erano in attesa e la loro consolazione era di ascoltare le notizie che venivano trasmesse a intervalli irregolari per non essere intercettate dai comandi tedeschi disseminati nella nostra regione. Ricordo che nel sottoscala della palazzina dove abitavo un apparecchio radio di dimensioni notevoli – una radio a valvole che per antenna usava un filo elettrico legato a un’inferriata - trasmetteva a basso volume. Ad ascoltare erano in molti, mentre a turno qualcuno rimaneva fuori per dare l’allarme in caso di pericolo. Se i fascisti avessero scoperto la radio clandestina, sarebbero stati dolori per gli abitanti del caseggiato. Devo dire che io ero molto scettico sulle notizie date da questa fantomatica Radio Londra: mi sembravano sempre le stesse, magari in forma diversa. Era il giorno 26, l’aria era dolce e il profumo dei fiori era intenso. All’alba l’aria era ovattata. Quella mattina, come sempre, io e mio padre ci incamminammo verso la zona del Divino Amore. Prendemmo la via delle Sette Chiese, girammo a destra e attraversammo gli Orti Flaviani, per evitare il blocco delle camice nere posto al bivio della via Ardeatina, presso le cave ardeatine – quelle che saranno ricordate come Fosse Ardeatine – dove avevamo passato brutti momenti col mio amico Corrado – ma questa è un’altra storia. Trovammo un’altro sbarramento presso la via San Sebastiano. Con varie deviazioni arrivammo sulla via Appia Pignatelli e proseguimmo fino a raggiungere la via Appia Nuova. Quando arrivammo al cavalcavia della linea ferroviaria Roma-Pomezia-Anzio-Nettuno, fummo di nuovo costretti a rallentare la nostra marcia: non era possibile proseguire a causa di un movimento di mezzi pesanti, carrarmati e autoblindo delle forze di occupazione tedesche.
Ad un tratto sentimmo un boato, seguito da un sinistro brontolio. Ci rifugiammo sotto al cavalcavia, ma subito tornammo all’aperto perché era evidente che l’obiettivo era proprio il ponte della ferrovia. Era iniziato un bombardamento a tappeto dalle navi della flotta degli alleati ancorate al largo di Anzio. Dal mare le bordate erano dirette sui Castelli Romani, esattamente sulla zona di Frascati, dove era il comando tedesco del Generale Kesserling con tutto lo stato maggiore e i gruppi logistici dell’esercito, della Gestapo e delle giubbe nere – le squadre della morte delle SS. Il cannoneggiamento non dava respiro, le bordate erano sempre più violente. Vedemmo, in direzione dei Castelli Romani, una nuvola di fumo che s’innalzava, misto a un colore rossiccio. In quel momento l’aria divenne di nuovo ovattata, quasi atona. Avevo le orecchie chiuse, come se fossi salito velocemente in alta montagna o in aereo. Prendemmo la saggia decisione di tornare indietro perché il bombardamento non smetteva un attimo e un odore acre ci prendeva alla gola. Eravamo sconsolati. Sapevamo che in casa le provviste erano esaurite, ma purtroppo il pericolo era sempre troppo forte. Andare avanti significava andare incontro a qualcosa di molto spiacevole. Mio padre camminava così curvo! Fu allora che, camminando dietro a lui, mi resi conto per la prima volta di quanto fosse invecchiato mio padre, con i suoi capelli bianchi a soli 44 anni. Sentii una grande pena per lui e per me. Lo raggiunsi e lui mi prese per mano, ma era come smarrito. Gli dissi: papà, c’è una casa cantoniera, io vado a vedere se mi danno un poco di pane di segale. Entrai dal cancello e mi trovai in uno spazio molto ampio dove, sotto un patio, era seduto un uomo assorto a consultare delle carte planimetriche. Mi avvicinai, come di solito facevo con tutti. Era un tedesco, un generale con la divisa nera delle SS. Mi spaventai ed ebbi un attimo di esitazione. Mi sentivo in trappola. Pensavo alle tante storie che si raccontavano, come quelle sulle torture a via Rasella. Pensai anche a mio padre che, se mi avesse seguito, avrebbe sicuramente rischiato la vita. Rimasi immobile, mi inchinai e chiesi scusa. L’uomo mi fissò con i suoi occhi azzurri e gelidi e, parlando in italiano, mi disse: cosa fai qui? Si alzò. Era altissimo, così mi parve. Dissi che avevo molta fame, lo ripetei più di una volta, quasi balbettando. Il tedesco, addolcito lo sguardo, cambiò atteggiamento, divenne quasi umano, mi mise una mano sul capo e mi diede del danaro dicendo: prendi, non ho cibo da darti, vai, vai. Mi allontanai indietreggiando, ancora pieno di paura. Uscito dal cancello, vidi mio padre che si era allontanato in direzione dell’Appia Pignatelli. Forse aveva visto anche lui il tedesco. Lo vidi ancora più stanco e assorto. Mia madre era andata a vivere presso una nostra zia. Lui era rimasto solo con me e forse in quel momento sentiva tutto il peso della sua solitudine. Lo raggiunsi e mi attaccai alla sua mano. Gli dissi: papà, mi hanno dato molto danaro, sei contento? Mi fece cenno di sì con la testa. Non si accorse che ero spaventato e sconvolto. Proseguimmo verso casa.
Intanto i tedeschi stavano organizzando la difesa di Roma. Quella sera mio padre era molto pallido e preoccupato. La situazione non prometteva niente di buono. Il cielo era rosso. C’era la speranza di un po’ di pioggia. Erano mesi che non pioveva. La polvere, quando soffiava il vento, ci soffocava. Non fummo in grado di spendere quei soldi per avere del cibo. Tornammo a casa moto delusi. Quella sera fu una delle più nere. La luna illuminava con la sua luce fioca la nostra tavola. I piatti erano vuoti come la nostra pancia. In silenzio, uno alla volta, andammo a coricarci. Anche questa giornata era trascorsa. Nessuno disse una parola. Io rimasi con gli occhi fissi non so per quanto tempo a guardare la luna che si allontanava lentamente. Avevo voglia di piangere, non so se lo feci, mi addormentai. Nella notte mi svegliai. Sudavo freddo. La luna era livida. Anche lei forse soffriva per la mia stessa solitudine. Scoppiò un gran temporale. I fulmini cadevano e il fragore del tuono mi faceva uno strano effetto: mi spaventava e insieme mi rallegrava. Il forte scrosciare dell’acqua mi fece evadere da tutti i brutti pensieri che, giorno dopo giorno, avevo accumulato. Caddi in un sonno profondo, liberatorio. I sogni che feci li ricorderò in seguito. Mi svegliai di nuovo. La luna era tramontata lasciando una luce violacea, mentre il cielo lentamente si schiariva. Verso l’aurora il cielo si tinge di ametista, un colore bellissimo che si può osservare solo se hai la costanza di vedere il passaggio dal buio della notte al chiarore del giorno. Ripresi sonno solo quando il sole era già alto. Al risveglio mi resi conto che una nuova giornata di guerra stava iniziando e, finalmente, mi feci un bel pianto. Gli ultimi avvenimenti mi fecero sentire non più un ragazzo, ma un vecchio. Ero triste per questo, ma purtroppo sapevo che gli altri non si sentivano più giovani di me, e tenni per me tutta la mia tristezza.
I sogni li ricordai in seguito. Dapprima erano confusi. Varie ombre si affollavano nel ricordo. I passaggi da una figura all’altra erano troppo repentini. Poi il ricordo divenne più chiaro e mi trovai in mezzo a una strada alberata, prima con cipressi, poi con pini secolari. In seguito il viale divenne pieno di alberi fioriti, e il profumo di quei fiori mi lasciava sempre più stordito. Alla fine il viale scomparve e divenne un campo di grano. La fame, anche nel sogno, era sempre molto presente. Poi il campo si restrinse e divenne un buco nero. Camminavo immerso in questo buco che si stringeva sempre di più. Mi sentivo soffocare. Al risveglio ricordavo soprattutto il buco nero che mi soffocava. Poi pensai che il sogno rivelava il mio desiderio di tornare alla normalità, ma che di prepotenza mi aveva riportato alla realtà quotidiana, quella di tutti i giorni.
Il giorno dopo restammo a casa. Il silenzio la faceva da padrone. Mio padre restò a lungo seduto sul letto in silenzio, assorto nei pensieri più neri. Io andai in cortile con i miei amici. Ognuno raccontò come trascorreva il suo tempo. Io ascoltavo ma non dissi nulla. Tutto mi parve così fantastico e, mentre ascoltavo le loro storie, rivedevo, come nello scorrere di una pellicola, le mie giornate trascorse nei luoghi che frequentavo con mio padre. Considerai allora sciocchi i loro puerili racconti. Le mie esperienze sì, erano cose molto significative, e le tenni tutte per me. Se le avessi raccontate, nessuno mi avrebbe preso sul serio.


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