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IL CREPUSCOLO DELLA COMPETIZIONE 

(di Cira Almenti - Settembre 2013)
Riassunto commentato di un articolo di Martin Nowak e due di Marilynn Brewer
(roba che non troverete in italiano manco a pagarla un euro a virgola)


L’umanità ama più i dogmi che la scienza. I dogmi ci danno la beata certezza di non poter cambiare le cose, e di conseguenza ci esonerano dall’assumerci responsabilità. La scienza non ammette dogmi, ma solo teorie. Una teoria scientifica non è altro che una spiegazione di certi fatti osservabili, sostenuta da un buon numero di prove che un buon numero di esperti trova convincenti. Fino a prova contraria. In teoria qualsiasi teoria può venir sovvertita in qualsiasi momento, in pratica la scienza è diventata una religione monoteistica e ha trasformato le sue teorie preferite in dogmi che resistono anche all’evidenza.

Quando una teoria diventa dogma vuol dire che ci sono forti motivazioni ideologiche e ancor più forti interessi economici e politici a sostenerla. Per qualche motivo è preferibile che la massa creda a certe “verità” che mantengono le cose come stanno. La teoria dell’evoluzione attraverso la selezione naturale del più idoneo è una teoria scientifica, un tempo rivoluzionaria e ora dominante, che fino ad oggi non si è scontrata con forti prove contrarie. Questa teoria ha un corollario poco simpatico: la competizione spietata fra individui o gruppi per le risorse e lo spazio vitale.

Le teorie, come tutti i prodotti dell’umana conoscenza, non nascono fuori del tempo e della società, sono figlie della loro epoca. All’alba dell’era industriale Darwin “scoprì” che il mondo era governato da quella che secondo lui era la legge della giungla, ma che più probabilmente era la legge del capitalismo industriale proiettata sulla giungla. La natura, agli occhi di Darwin, era spietata come i padroni delle ferriere.

Questa visione della natura ha dominato la nostra cultura per un secolo e mezzo. Cosa ne sappiamo noi della natura? Noi vediamo e sentiamo quello che il nostro sistema nervoso riesce a percepire, anzi, nemmeno quello. Ci sono sempre troppi stimoli e quindi riusciamo a prestare attenzione solo a quelli che la cultura in cui viviamo ci ha insegnato a ritenere importanti; poi li raggruppiamo e interpretiamo come abbiamo imparato a fare. La dicotomia tra natura e cultura, che ha fatto riflettere fior di sedicenti filosofi, non esiste: natura è quello che di volta in volta una cultura definisce come natura. E ciò che è naturale viene considerato inevitabile.

La competizione come legge naturale ha fatto molta strada, in epoca postmoderna ha generato la competitività e l’homo competitivus, un primate burocratico malato di alienazione, indifferenza, sadismo, intolleranza, burnout(1) , depressione, cancro, diabete e disturbi cardiovascolari a scelta. La massa rassegnata continua a credere che il turpe egoismo sia l’essenza della natura in generale e della natura umana in particolare e l’homo competitivus prospera – per modo di dire.

Quando ad agosto del 2010 la rivista scientifica “Nature” pubblicò l’articolo “The Evolution of Eusociality”(2) di Martin A. Nowak (professore di biologia e matematica all’università di Harvard), Corina E. Tarnita (matematica) ed Edward O. Wilson (sociobiologo), nel santuario della competizione scoppiò un putiferio: i tre scienziati avevano buttato alle ortiche la teoria di W.D. Hamilton sull’idoneità inclusiva (inclusive fitness). Questa teoria, risalente al 1964, spiegava l’esistenza di fenomeni quali altruismo e cooperazione, che avevano dato filo da torcere anche a Darwin, come sviluppo di un caso particolare dell’istinto di sacrificarsi per salvare la propria progenie. Questa specie di carità pelosa (corro un rischio per salvarti affinché tu garantisca la sopravvivenza del mio patrimonio genetico) veniva estesa ogni tanto a fratelli e cugini, portatori anch’essi, almeno in parte, degli stessi geni del peloso caritatevole. All’epoca di Darwin la biologia molecolare ancora non c’era e il DNA con i suoi geni non era stato scoperto, ma nel secolo scorso molti scienziati descrivevano il comportamento dei nostri antenati ominidi come se quegli scimmioni pelosi fossero stati perfettamente consapevoli del loro dovere di salvare i geni. Oppure come se i geni stessi avessero caratteristiche umane, prima fra tutte l’egoismo. Lo dice il titolo di un libro famoso, “The Selfish Gene” (il Gene Egoista, 1976), il cui autore, Richard Dawkins, non è mai stato accusato di aver antropomorfizzato delle ignare molecole. I geni sarebbero stati capaci di valutare i legami di parentela tra i loro portatori e di decidere se valesse la pena correre un rischio per salvare un cugino di secondo grado. Oltre che egoisti, i geni dovevano essere anche molto intelligenti! Il mito dell’onniscienza e onnipotenza dei geni sta lentamente tramontando, ma questa è un’altra storia.

La pubblicazione dell’articolo di Nowak, Tarnita e Wilson mandò i seguaci di Hamilton su tutte le furie, e sui tre rivoluzionari si rovesciò un’incredibile, poco scientifica, pioggia di insulti. Nonostante ciò, nel 2011 è uscito “SuperCooperators: Altruism, Evolution, and Why We Need Each Other to Succeed”. (I supercooperatori: altruismo, evoluzione e perché abbiamo bisogno gli uni degli altri per riuscire) di Martin Nowak e Roger Highfield (Free Press).

Secondo Nowak & soci l’altruismo e la capacità di collaborare non hanno bisogno di essere spiegati con una teoria a parte perché si spiegano benissimo nel quadro generale della teoria della selezione naturale, e non sono un’eccezione alla regola, bensì uno dei motori principali dell’evoluzione. Senza cooperazione non esisterebbero forme di vita complesse.

Gli organismi pluricellulari sono nati dall’aggregazione di molti organismi unicellulari che hanno rinunciato alla libertà di girovagare e di mutare al volo i loro geni in risposta agli stimoli ambientali. Far parte di un sistema organizzato offriva maggior sicurezza, pur richiedendo dei sacrifici. Le cellule di un organismo si coordinano per controllare la moltiplicazione, a volte si “suicidano” (apoptosi) per evitare di produrre un cancro. Le cellule del cancro sono proprio quelle che hanno perso la capacità di sacrificarsi al momento giusto per il bene comune. Un organismo è una società di cellule, un esempio direi epico di collaborazione, e poi ci sono le società di organismi, come sciami e branchi, e le società di società: gli ecosistemi, in cui milioni di specie collaborano per rendere possibile la vita. Senza ecosistemi la vita sarebbe scomparsa velocemente nel caos della guerra di tutti contro tutti. Specie diverse a volte competono tra loro per il “posto al sole” e a volte collaborano specializzandosi, mentre i membri della stessa specie collaborano più spesso che no. Formiche, api e termiti operaie sacrificano la propria capacità riproduttiva per accudire la prole della regina, e collettivamente arrivano a realizzare opere, come città sotterranee perfettamente organizzate, ventilate, coibentate ed economicamente indipendenti, che nessuna formica, ape o termite saprebbe realizzare da sola. Le leonesse si aiutano nella cura e nell’allattamento dei cuccioli, i pipistrelli vampiri, che formano gruppi stabili, rigurgitano una parte del cibo per nutrire i loro simili che non hanno avuto fortuna nella caccia, spesso ricambiandosi il favore. Fra i primati, che vivono in bande e hanno buona memoria, gli individui che si sono dimostrati più generosi e disponibili vengono aiutati più volentieri da tutti, anche da quelli che non hanno mai ricevuto aiuto. Sembrerebbe che anche gli animali si facciano una “reputazione”. La reputazione diviene importantissima nelle società umane, grazie al linguaggio elaborato e all’uso di nomi. Vivendo in un gruppo, dice Nowak, si deve essere abbastanza intelligenti da comunicare le proprie intenzioni, intuire le intenzioni degli altri e ricordarle. La capacità linguistica si è sviluppata nell’interazione e ha favorito lo sviluppo del cervello, che a sua volta ha favorito lo sviluppo della lingua. Proprio il fatto di disporre di un linguaggio complesso fa degli esseri umani dei “supercooperatori”, che hanno costruito intere civiltà lavorando insieme e le hanno distrutte entrando in competizione.

La selezione naturale ci ha spinti verso la cooperazione: rispetto a molti altri animali il primate homo, privo di artigli, pelliccia e zanne, è debole e indifeso. Nessun individuo umano avrebbe potuto sopravvivere da solo; l’umanità è sopravvissuta grazie alla sue capacità di vivere in gruppo e solo collaborando riuscirà a sopravvivere in futuro. La collaborazione, quindi, non esclude la competizione, sono due forze che contribuiscono alla selezione naturale. La selezione di gruppo è un concetto espresso già da Darwin nella sua opera “Le Origini dell’Uomo” del 1871: “Una tribù con molti membri disposti ad aiutarsi e a sacrificarsi per il bene comune sarebbe avvantaggiata rispetto alla maggior parte delle altre tribù, e anche questa sarebbe selezione naturale”. Darwin presupponeva che i vari gruppi fossero in costante conflitto tra di loro, ma non è detto che sia sempre così, come vedremo tra breve.

La stranezza delle teorie dell’idoneità inclusiva (Hamilton) e della supercooperazione (Nowak) è che si basano su calcoli matematici. Negli anni ’50 e ‘60 negli Stati Uniti si facevano esperimenti ai cui partecipanti veniva proposto in forma di “gioco” un dilemma morale che li costringeva a scegliere se anteporre o meno i propri interessi personali al bene comune. I “giocatori” immaginavano di essere i personaggi del dilemma e decidevano come si sarebbero comportati nella situazione descritta. Nell’impossibilità di coinvolgere migliaia di persone nel gioco o continuare a giocare per anni, oggigiorno, sempre negli Stati Uniti, si ricorre al computer per simulare le possibili scelte di varie generazioni successive di giocatori. Ogni nuova generazione è formata dai “figli” dei “sopravvissuti” della generazione precedente, e si suppone che abbiano ereditato dai “genitori” un certo tipo di comportamento.

Sviluppando le conseguenze delle varie combinazioni possibili e osservando quale tipo di risposta prevale ad ogni “giro”, si osserva che si alternano periodi in cui prevale una risposta egoistica a periodi in cui prevale l’altruismo. Questi cicli sembrano riflettere la storia reale dell’umanità, con i suoi periodi oscuri di guerra, paura e sfiducia generale e i suoi periodi più luminosi di ottimismo e progresso. Purtroppo una società pacifica e tollerante, in cui prevalga l’altruismo, è facile preda di quei pochi egoisti che fanno i furbi, ma, secondo Nowak, il vantaggio degli egoisti è a breve termine. La vita intelligente ha un potere distruttivo e perciò è fragile. Forse nell’universo si sono sviluppate altre specie intelligenti oltre a noi, ma si sono autodistrutte perché non avevano la capacità di collaborare.

Un dilemma famoso è la “tragedia dei beni comuni” descritta dell’ecologo Garrett Hardin nel 1968: alcuni allevatori hanno dei pascoli in comune e ciascuno lascia che i propri animali bruchino più di quanto pattuito, pur sapendo che stanno lentamente distruggendo una risorsa necessaria a tutti. Il risultato finale di questo comportamento avido e imprevidente non può essere altro che il collasso. Negli esperimenti reali con questo tipo di dilemma, le risposte sono più altruistiche quando i giocatori ricevono, da una fonte che ritengono attendibile, informazioni chiare sui rischi della scelta egoistica. Un altro incentivo ad un comportamento generoso è giocare a carte scoperte, “facendo bella figura”. Sembra poco lodevole, ma in fondo se pensiamo di far bella figura comportandoci generosamente, vuol dire che attribuiamo alla generosità un valore positivo. Quindi, Nowak conclude, se i nostri politici vogliono evitare la catastrofe, devono incoraggiare comportamenti altruistici diffondendo informazioni precise e premiando le buone scelte.

Ora lasciamo la matematica del comportamento possibile, che essendo pura matematica sembrerà molto convincente ai più religiosi cultori della pura scienza ma che io trovo poco soddisfacente perché astrae dal contesto della vita reale, e passiamo a una scienza più articolata e sofisticata: la psicologia sociale. Qui di seguito vi condenso a modo mio due articoli della professoressa Marilynn Brewer dell’università statale dell’Ohio (bibliografia in fondo).

L’umanità si è evoluta vivendo in gruppi, come testimoniano i ritrovamenti archeologici; il gruppo era una specie di cuscinetto tra l’individuo e l’ambiente. Un esempio concreto di questa funzione-cuscinetto:
Essere onnivori ha permesso agli umani di adattarsi ad ambienti naturali diversi e ha reso necessario condividere informazioni su cosa fosse commestibile e cosa no: l’”istinto” non sarebbe bastato ad orientarsi fra le migliaia di cibi possibili, e se ogni individuo avesse dovuto reimparare tutto da capo per prova ed errore avrebbe perso troppo tempo, avvelenandosi magari con qualche bacca o fungo.

L’apprendimento, nell’evoluzione umana, è diventato più importante dell’istinto, e la cooperazione più importante della forza. Che si trattasse di andare per funghi, organizzare battute di caccia o costruire palafitte, gli umani dovevano lavorare insieme.

Non era necessario che l’individuo si adattasse direttamente all’ambiente naturale: l’ambiente della selezione era il gruppo. I più idonei a sopravvivere in questo ambiente erano i più socievoli, i più disposti a collaborare, a condividere informazioni e ad adeguarsi alle norme della vita in comune.

Quindi il bagaglio genetico, la struttura sociale e la cultura sono interdipendenti e si sono evoluti insieme. La cultura fa parte della natura dell’essere umano. Cultura e struttura sociale possono anche influenzare la biologia, come nel caso in cui le donne di un villaggio sincronizzano (inconsciamente, s’intende!) le loro mestruazioni in modo da rimanere incinte e partorire più o meno contemporaneamente per potersi dedicare tutte insieme alla cura dei piccoli. Nel contesto della vita associata occuparsi dei ”figli degli altri” e proteggerli conviene a tutti. Non c’è bisogno di invocare casi particolari dell’ideoneità inclusiva di Hamilton per spiegare il fenomeno: la sopravvivenza del maggior numero possibile di bambini è necessaria a garantire la continuità del gruppo, senza il quale i ”figli propri” non potrebbero sopravvivere.

Secondo la professoressa Brewer tutti gli elementi costitutivi della personalità umana: cognizione, emozione, affettività e motivazione, sono stati forgiati dalle necessità dell’interdipendenza. Le motivazioni sociali come il bisogno di sentirsi accettati e la paura di rimanere soli sono gli elementi più profondi e radicati del comportamento umano.

La motivazione sociale include e spiega anche il nostro atteggiamento verso la conoscenza: quello che sappiamo del mondo non è tanto il frutto delle nostre osservazioni individuali quanto una rappresentazione collettiva, che gli uomini delle caverne condividevano comunicando dal vivo e noi attraverso i media. Quello che abbiamo sentito dire da fonti che riteniamo affidabili ha per noi lo stesso valore di ciò che abbiamo visto con i nostri occhi. La nostra fonte di significato è la conoscenza condivisa, mentre certezza è praticamente sinonimo di consenso.

I famosi stereotipi etnici e sociali non nascono necessariamente da una scorciatoia che la mente umana prende per non fare la fatica di rimettere in discussione le categorie in cui si è comodamente adagiata, ma dalla necessità di mantenere unito il gruppo di appartenenza differenziandolo dagli altri gruppi. Gli stereotipi persistono al livello sociale anche quando vengono rifiutati al livello individuale perché la lealtà verso il gruppo è molto forte quando il senso di identità dell’individuo è legato alla sua appartenenza a questo gruppo. Una forte identificazione con un gruppo non implica automaticamente odio e discriminazione nei confronti degli altri gruppi, implica soltanto che, pur di distinguerse noialtri da quegli altri là, si cerca di evidenziare le differenze tra un gruppo e l’altro – anche a costo di inventarle.

Naturalmente non sempre gli interessi del gruppo coincidono con quelli individuali: come tutti sappiamo, ogni tanto ci troviamo in situazioni di conflitto tra quello che vorremmo fare noi, quello che vuole da noi l’azienda, quello che ci chiede la famiglia, quello che propongono gli amici e quello che dovremmo fare come buoni cittadini. Questi conflitti possono assumere dimensioni tragiche, come nel caso di Giulietta e Romeo, o rimanere al livello di commedia, ma in ogni caso la nostra vita sociale è costellata di negoziati, battibecchi e compromessi per mantenere allo stesso tempo l’integrità dell’identità individuale, le relazioni sociali e l’ interesse collettivo.

Quando i sistemi di motivazione individuale, familiare e collettivo si scontrano, si rivela l’ambivalenza della ”natura umana”: da una parte sentiamo il bisogno di aggregazione, cioè di sentirci parte di una collettività che ci sostiene, e dall’altra sentiamo il bisogno di distinguerci e realizzarci individualmente. Più viene soddisfatto uno dei due bisogni più viene frustrato l’altro, ma identificarsi con gruppi chiaramente distinti dagli altri gruppi soddisfa entrambi i bisogni. La nostra identità, cioè la nostra idea di chi siamo e del significato della nostra vita, può essere più o meno ancorata nell’identificazione con uno o diversi gruppi; più saldamente è ancorata, più vogliamo che il gruppo di cui ci sentiamo membri (che sia il fan club di un cantante, una parrocchia o un’associazione internazionale) si distingua da tutti gli altri, e quindi facciamo di tutto per essere riconosciuti come membri di quel gruppo per esempio indossando la maglietta del club, salutando gli altri membri con una stretta di mano segreta o usando un gergo.

Essere disponibili verso gli altri membri del proprio gruppo preferito è una forma di altruismo basata sulla fiducia, indispensabile in un sistema di cooperazione. Dagli studi della professoressa Brewer non risulta nessun tipo di correlazione tra la preferenza per il proprio gruppo e l’ostilità verso altri gruppi. L’ostilità o meno dipende da fattori ambientali come il tipo di società in cui i gruppi esistono: una società gerarchica e fortemente competitiva incoraggia l’ostilità, una società aperta in cui ogni individuo può sentirsi membro di molti gruppi allo stesso tempo incoraggia la tolleranza. Un esempio di appartenenza a gruppi che si intersecano: Giovanna si sente donna, socia del WWF, gattara, dipendente della pensione Gioiello, tesserata del sindacato dei camerieri cattolici, parrocchiana di Santa Maria Erborista, italiana, romana, trasteverina...

La flessibilità e variabilità tipica della natura umana ci danno la capacità di identificarci con gruppi concentrici sempre più vasti: dal villaggio all’umanità intera. Purtroppo il potere politico, per mantenere lo status quo, può scegliere, e spesso ha scelto, di fomentare l’ostilità fra gruppi etnici, culturali o religiosi, spacciando eventualmente l’ostilità per fenomeno naturale e quindi inevitabile.

Secondo Brewer negli esperimenti costruiti intorno ai dilemmi in cui la conservazione dei beni pubblici e delle risorse naturali entra in conflitto con l’interesse privato, la risposta è variabile: se non c’è un’identificazione simbolica con la società, la reazione tende ad essere egoistica: tutti cercano di approfittare dei beni pubblici, ma basta fornire un simbolo unificante (per esempio una bandiera, o qualsiasi cosa possa rendere concreta e visibile la collettività) per veder diminuire l’uso individuale delle risorse. Se poi il dilemma è preceduto da una breve discussione di gruppo, la scelta è sempre altruistica. La situazione, la cultura e scelte degli altri influenzano la scelta individuale, dimostrando che l’essere umano risponde immediatamente alla situazione sociale in cui si trova.

In conclusione, il comportamento umano non è guidato né da sfrenato egoismo né da altruismo suicida, ma in genere si trova a metà. La scelta a favore della collettività è altrettanto naturale di quella egoistica, la collaborazione è tanto naturale quanto la competizione. In presenza di valori comuni e scopi condivisi siamo capaci di collaborare al di sopra di tutte le divisioni.

Questo è quanto ci dice la nuova scienza. Concludo: se vogliamo cercare nell'osservazione della natura esempi di competizione, ne troveremo. Troveremo anche esempi di cooperazione, che finora abbiamo scelto di non vedere. Noi umani con il passar dei secoli scopriamo sempre nuovi aspetti della natura, che prima non vedevamo perché non eravamo ancora arrivati al livello corrispondente. La rivoluzione industriale ci ha rivelato l’aspetto meccanico e competitivo della natura. Va bene, ora però ne è passata di acqua sotto i ponti, la rivoluzione industriale sta culminando in una catastrofe planetaria, dalla grezza meccanica siamo passati all’elettronica, dalla fisica newtoniana a quella quantistica ? è ora di scoprire nuovi aspetti della natura, che finora non avevamo visto – ovvero di proiettare sulla natura altri aspetti di noi stessi, che finora non avevamo visto. E soprattutto mettiamoci in testa, ragazzi, che non abbiamo più scuse. È inutile andarle a cercare nelle leggi naturali che di volta in volta inventiamo: noi umani siamo quello che decidiamo di essere.

Fonti:

Martin Nowak
The evolution of Cooperation
Scientific American, July 2012

Richard Béliveau, Denis Gingras
L’alimentazione anticancro Sperling & Kupfer 2006 (pag. 22-24)
Marilynn Brewer: The psychology of prejudice: ingroup love or outgroup hate?
Journal of Social Issues Volume 55, Issue 3, pages 429–444, Fall 1999

Marilynn Brewer
Taking the Social Origins of Human NatureSeriously
Personality and social psychology review vol 8 N.2, May 2004



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