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Pensiero con la coda 

(di Cira Almenti - Primavera-Estate 2012)

scorpio

PER ELISA!


Siamo a Helsinki, nel tecnologico Nord, e io sto andando in uno dei punti-vendita dell’operatore telefonico Elisa, che sarebbe la Telecom finlandese. Ovviamente Elisa sta alla Telecom come un Frecciarossa sta a un carretto con somaro. La mia intenzione sarebbe stata quella di recarmi in un ufficio di Elisa per sistemare la questione che vi descriverò fra breve, ma Elisa non ha uffici. Roba antiquata, gli uffici. Elisa ha un servizio clienti, raggiungibile telefonicamente o per posta elettronica, e tanti punti vendita, dove si può comprare un videocameracomputerfonino o stendere un contratto, oppure, come nel mio caso, chiedere un rimborso. Ho il telefono fisso, l’ho preso pochi anni fa per oppormi alla mobilizzazione di tutte le linee telefoniche e all’eliminazione dei cavi. Ormai neppure per cucire si usano più i fili: anche gli aghi sono telecomandati.

A me, che preferisco un asino vivo a un Frecciarossa morto, sembra un’imprudenza eliminare la rete fissa. Anche i campi magnetici, quando ce ne sono troppi tutti insieme, potrebbero andare in tilt. Purtroppo la mia buona azione ecologica finisce qui: devo disdire il contratto: non posso più permettermi un canone di 9,60 euro al mese per un telefono che uso pochi mesi l’anno. Già l’estate scorsa avevo cercato di risparmiare qualcosa facendo ”archiviare” per tre mesi il mio allacciamento. Ciò voleva dire che per tre mesi il mio telefono sarebbe stato fuori servizio e avrei pagato solo 5 euro al mese. Dopo alcuni palleggi via mail con il servizio clienti, tutto sembrava a posto, ma al mio ritorno la bollettta diceva:
giugno 9,60
luglio 9,60
agosto 9,60.
Mandata una mail per chiedere cortesemente spiegazioni, ricevetti mille scuse e la promessa che 7 euro e rotti mi sarebbero stati scalati dalla bolletta seguente. Inoltre, su mia nuova richiesta, mi avrebbero archiviato il telefono per altri tre mesi. Anche questa volta sembrava tutto a posto, ma non lo era.

Chi vuole vada di persona e chi non vuole mandi una mail. Pur sapendo che vado incontro a tre quarti d’ora di giramento di pollici con il numero 5892 in tasca, vado. Sarà un’attesa tutt’altro che tranquilla, nel regno del big dell’intrattenimento, della suoneria che scatarra hip hop in tutte le lingue del mondo, del videogioco tridimensionale, del videofonino con televisore, home cinema e pop corn incorporato, della banda oceanica e forse anche della telefonia.

Lo studio Elisa supera tutte le mie aspettative. Appena entro mi trovo davanti a un megaschermo su cui vedo agitarsi la chioma bionda di una bellissima cantante, e la sento anche cantare, con l’immancabile pum putipum di sottofondo. Il volume non è abbastanza alto da impedire di sentire la propria voce, ma nemmeno abbastanza basso da permettere di fare un discorso. Davanti allo schermo c’è una specie di parapetto e sulla sinistra in un chioschetto, con il suo portatile senza fili, sta una ragazza che mi chiede in che cosa può aiutarmi. Comincio a parlare del rimborso e lei mi comunica che non ci sono operatori liberi al momento, mi sedessi ad aspettare il primo operatore disponibile. Oh bella, ho incontrato una segreteria telefonica in carne e ossa! Non ci sono nemmeno i numeretti, quindi non posso uscire a farmi un giro e devo sistemarmi là dove mi viene indicato, cioè su una delle tre poltroncine che circondano un tavolino semicircolare attaccato alla parete. Al centro del tavolino troneggia uno schermo televisivo. Sta andando in onda un documentario americano in cui si narra la storia di un nonnetto che si scopre malato di cancro. Il volume fortunatamente è quasi a zero, quindi leggo i sottotitoli. Il nonnetto si chiama Cal e sua moglie Val - e pensare che troviamo buffi i nomi monosillabici dei cinesi. Ci sono altri due o tre tavolini come il mio, tutti con il loro schermo, e verso il fondo dell’ambiente un tavolo alto con uno schermo panoramico dove gira lo stesso documentario. In una parete occhieggiano cinque nicchie ovali imbottite di cuscini. Nelle nicchie alcuni adolescenti incuffiati, seduti sul coccige nella loro tipica posizione a schiena arrotolata, manovrano degli aggeggi piatti assicurati alla parete da un filo a spirale. Accanto ad ogni nicchia c’è una specie di attaccapanni da cui pendono altri aggeggi piatti più piccoli. Forse sono iPad, forse qualcosa di ancora più avanzato. Con un occhio seguo la storia lacrimosa del documentario e con l’altro studio l’ambiente, cercando di mantenermi lucida e consapevole di tutto ciò che avviene intorno a me, e di rimanere seduta sulle tuberosità ischiatiche con la schiena eretta. Ci sono altre persone della mia età o più anziane, spaesate e frustrate, sedute intorno agli altri tavolini, mentre al tavolo alto un giovane incuffiato sfoggia il sorriso inespressivo dell’overdose da campi magnetici. Qui dentro gli unici fili sono quelli che impediscono ai ragazzini di portarsi a casa gli aggeggi piatti.

A un certo punto il documentario cattura la mia attenzione: googlando disperatamente per salvare il babbo, il figlio del monosillabo Cal ha scoperto l’efficacia dell’alimentazione e dell’attività fisica nella lotta contro il cancro e ha deciso di andare fino in fondo. Dopo un po’ - non credo ai miei occhi! - compare sullo schermo il mio eroe, il prof. Richard Béliveau (che bel nome polisillabico!), la punta di diamante dell’alimentazione anticancro. Tra fragole, broccoli e jogging, il nonnetto guarisce in barba ai tentativi dei medici di ammazzarlo con la chemioterapia. Ma a questo punto è già arrivato il mio operatore, un ragazzotto munito di portatile, a cui espongo succintamente i fatti e mostro la bolletta e le mail che ho stampato. Il ragazzo assimila, anche se lentamente, sfodera un cellulare ultrapiatto e fa diverse telefonate a vari colleghi (che prima di rispondere lasciano scatarrare la suoneria una trentina di volte) diteggia la tastiera, ritelefona. Forse i colleghi sono nella stanza accanto, ma in casa Elisa bisogna usare il telefono.

Per fortuna vedere Béliveau mi ha messa di buon umore, nonostante lo strazio pop del megaschermo, quindi continuo a seguire con un occhio le sofferenze di Cal costretto dal figlio Chris a mangiare passati di verdura, e con l’altro le sofferenze dell’impiegato che si sta occupando del mio caso. Dopo una buona mezz’ora il ragazzo mi spiega che i suoi colleghi devono semplicemente essersi dimenticati di fare quel che avevano promesso. Rispondo pane al pane: ”Se lavorano anche loro in un ambiente come questo, non me ne stupisco.” Sorriso sghembo dell’operatore. Ordino la revoca del contratto e mi faccio stampare subito la richiesta. La conferma arriverà - se la Dea vuole - fra due giorni per posta cartacea. La nuova bolletta, che si stava già formando, è stata corretta con tutti i rimborsi del caso. Sarà vero? Ora dovrebbe essere definitivmente tutto a posto. Ringrazio, mi congedo e rimettendo in ordine il mio incartamento sbircio la ragazza della reception. Ha uno sguardo vacuo che non avevo notato prima. La musica pop continua a martellare, e questi poveretti continueranno ad aggirarsi nel caos come ombre nell’erebo fino alle 19. Per fortuna mia io posso uscire, e non lavoro qui. Grazie a Béliveau non mi è nemmeno venuto mal di testa. Mi defilo prima che mi venga e filo verso il mare. E’ il più inquinato del mondo, si vede e si sente, ma spira comunque un bel venticello fresco, e in casi come questi non c’è nulla che ti rimetta in sesto come una ricca passeggiata lontano dalle pubblicità animate, dagli iPad, dalla banda larga e dai megaschermi. Un giorno avrò di nuovo un sano telefono con i fili, ma non sarà roba di Elisa.

In punta di coda
Cira

 



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