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Il pianeta Saudar

Capitolo 7

“No. Carsidia non deve accettare le violenze che il suo capo le infligge senza nessuna possibilità di difesa. Sulla terra questa forma di persecuzione si chiama ‘mobbing’. E ci sono leggi che la puniscono.

E su Saudar? Altro che civiltà. Questo è un mondo mostruoso”.

Era di questo genere il pensiero che assillava Martino quella notte nel sonno agitato e interrotto da molti risvegli.

Di notte, se il giorno precedente non si sono provate particolari emozioni, si dorme in tranquillità e le ore di riposo sono una cura naturale ineguagliabile per molte malattie. Quando invece le emozioni sono state forti, come quelle che Martino aveva provato quel giorno, i cattivi pensieri ingombrano i nostri sogni e sembrano allontanare ogni speranza di serenità. Eppure, per sopravvivere, è necessario tornare alla calma, e pare che il nostro organismo lo sappia e abbia precisi e puntuali meccanismi che mettono ordine nei pensieri e nei sentimenti.

L’uomo rapito dalla sua terra e deportato sopra un altro pianeta chiamato Saudàr aveva molte ragioni obiettive per essere preoccupato e ansioso. La ragazza incredibile che lo aveva accolto al suo primo risveglio su quel pianeta lo aveva certamente rassicurato con le sue parole e il suo comportamento amichevole, ma il sospetto che Felpa e Wariti, sotto l’aspetto pacifico, nascondessero una natura feroce e aggressiva, tornava al minimo indizio: il graffio sulla gola di Carsidia, al ritorno dalla corsa con cui si era allontanata dalla stanza, inseguita dal suo capo Achillipo, era un gravissimo indizio.

Dov’era Carsidia in quel momento? Dove dormiva? Era sola o con un compagno o un marito?

Martino, dovevano essere le 4 di notte quando, ormai completamente sveglio, si alzò, indossò la tuta verde e uscì nel corridoio.

Si voltò a destra e a sinistra ma non vedeva niente.

Fece un primo passo verso destra e subito una luce fioca si accese.

Si fermò. Guardò intorno. Non si vedeva nessuno. Non si capiva dove fosse la lampada accesa.

Pensò di andare a cercare Carsidia, ma come e dove? Voleva indagare, capire.

Si ricordò del telefonino che aveva in una tasca della tuta, ma non voleva allarmarla né preavvertirla delle sue vaghe intenzioni di indagare per conto suo e arrivare a capire qualcosa di più sul nuovo mondo senza suggerimenti o indottrinamenti.

Ma era veramente in grado di penetrare in qualcuno dei segreti di quegli strani esseri? Certo, nella sua mente il mistero incombeva, anche se Carsidia, almeno in apparenza, si era sforzata di fornirgli un buon numero di notizie interessanti e, tutto sommato, rassicuranti.

Senza un piano e senza idee precise percorse il corridoio fino in fondo, girò a sinistra e, dopo pochi passi, riconobbe nella penombra il finestrone da cui aveva visto il gran sole di quel pianeta all’alba del giorno precedente. Si accostò ai vetri. Non si vedeva quasi niente. Una fosforescenza appena percettibile proveniva dai ciottoli gommosi del cortile. All’improvviso udì uno scalpiccìo e una voce bassa incomprensibile. Si voltò pronto a fuggire o a difendersi. Lo riconobbe subito e si  calmò. Era il Felpa amichevole che aveva goduto con lui lo spettacolo del sole sorgente.

Il felpa gli sorrise e gli parlò come la radio di un’emittente straniera. Poi, come se la radio si fosse sintonizzata sulla giusta frequenza, gli disse: “Ciao, amico. Come stai?”

Martino non si meravigliò più. Ormai aveva intuito che, come la sua assistente, qualunque abitante di quel pianeta poteva parlare la sua lingua. Andò incontro al Felpa, gli diede una pacca sul lungo braccio, ricambiando così la pacca che aveva ricevuto il giorno prima, e, sorridendo, gli disse: “Bene, amico. Non riuscivo a dormire e sono venuto qui per vedere sorgere il sole”.

“Bagalavah” disse il Felpa “il grande astro dalle lunghe lingue fiammeggianti sorgerà tra due ore”.

Ah! Bagalavah era il nome del sole di Saudàr. Il felpa usava un linguaggio primitivo e immaginifico, forse pensando di rendere più comprensibile il discorso ad un essere molto meno evoluto di lui, orgoglioso e felice cittadino di Saudàr.

“Bagalavah è bellissimo all’alba” disse Martino “Non l’ho ancora visto al tramonto, perché ieri pioveva. Ma penso che, con le giuste condizioni atmosferiche, anche il tramonto sia uno spettacolo da ammirare, non è vero?”.

“Certamente, amico, qualche sera è veramente splendido, visto dal finestrone opposto.  Anche a me piacciono questi spettacoli naturali. In quei momenti mi sento davvero rilassato e in pace con me stesso e con tutto l’universo”.

Ecco, l’amico felpa era un adoratore del sole, come Martino e come tanti sulla terra.

“Sai” disse Martino “sulla terra si può vedere un bel corpo celeste anche di notte: la luna”.

Si sentì stupido, dopo averlo detto.

“Eh, sì” fece il Felpa “lo so. Noi purtroppo non abbiamo una luna. E così la notte, dove non c’è illuminazione artificiale, l’unica luce è quella delle stelle sempre più lontane da noi. Eppure qui in giro, nella foresta e intorno al lago, si aggirano creature attive proprio di notte, come se ci vedessero”.

Fu in quel momento che Martino si rese conto che stavano conversando a voce bassissima, per non disturbare i dormienti. Stettero un momento in silenzio guardandosi entrambi intorno, e la luce si spense. Ma il Felpa sollevò subito uno dei suoi lunghi bracci e la luce fioca si riaccese.

Martino sentì di potersi confidare con questo alieno pacifico.

“Sai” disse “non riuscivo a dormire perché sospetto che alla mia… assistente… Carsidia – mi ha detto lei di chiamarla così – sia stato fatto del male”.

Guardò l’alieno fisso negli occhi per vedere la sua reazione.

L’alieno sorrise.

“E’ quasi  impossibile su Saudàr… O almeno così si dice”.

Continuò a sorridere alla maniera dei Felpa: un ghigno quasi animalesco, simile a quello che hanno i nostri cani quando scodinzolano al padrone.

Martino si sentì un poco rincuorato.

“E tu come ti chiami?” chiese all’amico Felpa.

“Ma” fece il Felpa, come spiazzato “Puoi chiamarmi… Assurgaria. Vuol dire ‘Amico del mattino’”.

Martino aveva sperato per un momento che il Felpa avesse un nome definitivo ma, purtroppo, la relatività fondamentale di Saudàr non aveva ragione di venir meno.

“Vieni con me” disse Assurgaria “Ti porto da Carsidia”.

“No, no” rispose l’uomo tirandosi indietro “Non voglio disturbarla. Non voglio svegliarla a quest’ora”.

“Nemmeno io voglio svegliarla. Ti faccio solo vedere dov’è il suo dormitorio”.

Ma cos’è questo, un collegio? Pensò Martino e si lasciò prendere per mano dal semi-gigante buono che lo condusse per il corridoio opposto a quello della sua stanza fino a una porta un po’ più larga delle altre.

Il Felpa aprì la porta con grande cautela ed entrò tirandosi dentro l’uomo titubante. Per un lungo momento Martino rimase al buio completo. Si udivano diversi respiri di persone immerse nel sonno profondo. Poi si accese una luce prima rossa, poi verde, poi blu, e si videro sagome di letti e di persone distese sui letti. Martino riuscì a vedere il suo accompagnatore con una lampada in mano: era quella che emetteva quella luce intermittente.

Poi il Felpa si voltò, riaprì la porta ed uscì trascinandosi sempre dietro l’uomo.

“Hai contato i letti?” chiese  Assurgaria.

“Ehm, no. Mi sembravano una decina”.

“Erano otto. Carsidia dorme nel sesto. In questo dormitorio alloggiano tutte le guide del nostro ospedale”.

“Ma” chiese Martino “sono tutte femmine?”.

“Ah, sì. Sono tutte belle e capaci come Carsidia… Più o meno”.

L’uomo rimase a pensare a testa bassa, finché il Felpa gli disse: “Vieni, amico. Torniamo al nostro osservatorio. La luce del sole comincia un po’ prima ad accendersi, a poco a poco. Possiamo anche uscire e, forse, vedere qualche creatura notturna al limitare della foresta… O, forse, se t’è tornato il sonno, puoi tornare a dormire”.

“Ma che cosa sono queste guide dell’ospedale?” chiese Martino “E tu chi sei, un malato o una guida anche tu?”.

“No, io non sono malato, e nemmeno tu a quanto pare. Nei nostri ospedali, se c’è un letto libero, chiunque può avere alloggio. Io ci sto solo di notte. Di giorno vado qui intorno a studiare gli animali di questa foresta. Sto scrivendo un trattato per l’Istituto Zoologico. Le guide sono… voi terrestri le definireste angeli, perché aiutano, confortano, informano chi viene loro affidato”.

Mentre parlavano si avviarono verso l’uscita. In breve si trovarono fuori al freddo e al buio. Martino si tirò su il cappuccio che, una volta legato il laccio, proteggeva anche la bocca e il naso. Assurgaria gli porse un paio di occhiali che gli servirono per proteggere anche gli occhi e lo aiutarono a vedere qualche sagoma oscillante alla debolissima luce dell’alba.

Entrarono subito nella foresta e, alla luce blu della lampada del Felpa zoologo, poterono scorgere molte creature alate spostarsi velocemente da una chioma all’altra di quegli alberi millenari e altre creature fuggire nel sottobosco.

L’esplorazione durò solo pochi minuti. Nella luce blu apparve un Felpa enorme armato di una specie di mitra.

“Vattene Ferrogria” gridò Assurgaria “Perché sei qui?”.

“Siamo venuti a prenderti” gridò l’altro.

Martino si sentì paralizzato dalla paura, ma, con un supremo sforzo di volontà, in un lampo afferrò il braccio del suo compagno e lo indusse a spegnere la lampada. Poi Assurgaria prese Martino per mano e cominciò a fuggire.

Sbatterono contro l’enorme pelliccia di un altro Felpa e furono catturati.

“Che succede?” chiese con profonda angoscia Martino, mentre, a scossoni, veniva trasportato, legato mani e piedi e appeso, forse, a un bastone.

“Non preoccuparti” rispose Assurgaria che gli camminava accanto.

“Ma che dici? Che vogliono farmi? E’ finita, vero?”.

“Non preoccuparti” insisté il Felpa ‘amico’ “Non sono pericolosi quanto ora ti sembrano”.

“Tu sei pazzo!” piagnucolò Martino “Perché mi sono fidato di te?”.

Sentiva che sarebbe finito sbranato da questi superfelpa giganti.

Presto la luce divenne più forte e Martino poté vedere il suo amico con le mani legate trottare e ansimare dietro a quei Felpa guerriglieri molto più grandi di lui. Poco dopo entrarono in una caverna o una galleria e continuarono a camminare di nuovo al buio.

Quando arrivarono nella città protetta procedettero per strade affollate di Felpa e Wariti. Sembravano tutti allegri e tranquilli, ma nessuno si curava della processione di quei grandi Felpa che trasportavano i prigionieri.

Entrarono in un palazzo simile a quelli già visti da Martino quando era con Carsidia.

Li fecero entrare in una stanza vuota, con una panca e un finestrino con sbarre, slegarono l’uomo e chiusero la porta dall’esterno con due giri di chiave.

Tra i due calò un silenzio imbarazzante. Martino ormai non si fidava più di quel Felpa. Si ricordò del suo telefonino. Si spostò in un angolo, mentre il Felpa, stanco, si stendeva sulla panca. Pigiò il tasto verde.

Subito Carsidia rispose: “So tutto. Non ti preoccupare. Segui i consigli del Felpa che è con te”.

“Non so se sia prudente” disse l’uomo cercando di parlare quanto più basso poteva “Ho il sospetto che sia un traditore”.

“No. Stai tranquillo. Stasera ti vengo a prendere. Intanto osserva tutto. Vedrai, è interessante”.

Carsidia chiuse il contatto e Martino guardò il Felpa che si era alzato sui gomiti e sorrideva come se niente di grave fosse successo.

Udirono una scampanellata.

“Ci portano a pranzo” disse Assurgaria alzandosi.

Infatti la porta si aprì e due carcerieri, un Felpa e un Wariti, si presentarono tutti sorridenti.

“Avanti, parassiti scansafatiche, venite. E’ pronto in tavola” disse il Wariti.

I carcerieri si avviarono per il corridoio lasciando la porta aperta. I due prigionieri li seguirono. In pochi passi arrivarono in un salone che aveva tutta l’aria di un ristorante di stile italiano. C’era anche un odore appetitoso come di pesci e verdure arrostite sulla brace. Ed effettivamente al centro del salone troneggiava qualcosa come un grande barbecue fumante. I quattro sfilarono intorno al braciere. C’erano proprio pesci e verdure ad abbrustolirsi. Martino si guardò intorno. C’erano molti tavoli sparsi e persone che già avevano cominciato a mangiare o ridevano e conversavano.

“Come è possibile?” disse l’uomo al Felpa “Sembra di stare in un vero ristorante terrestre”.

“Questi protetti vi hanno imitato” disse Assurgaria ridacchiando.

“Beh, la cucina sembra ottima”.

La paura e la preoccupazione che lo avevano assalito durante il viaggio e poi nella cella avevano lasciato il posto a un robusto appetito. Ma prima del pranzo Martino chiese di andare al bagno.

“In fondo a destra, scendi le scale” disse il Wariti “Ti aspettiamo al tavolo. Vuoi che ordiniamo anche per te?”.

“Ah, grazie” rispose Martino “Vorrei tutto: uno di questi pesci e contorno di verdure” e si avviò verso il luogo indicato.

Si sbrigò in un attimo. Era curioso di vedere, annusare e assaggiare le vivande alla brace dall’aspetto molto più familiare dell’immonda poltiglia servita da macchine automatiche al refettorio dell’ospedale. Avrebbe gradito anche un buon bicchiere di vino.

Quando raggiunse gli… amici – ma erano amici? – al tavolo, questi avevano già ordinato e ora una bella giovane Felpa stava servendo le bevande.

Come? Una bella Felpa?

Era davvero bella, come non ne aveva viste nel mondo, diciamo, normale. Era, ovviamente, un po’ pelosa, ma aveva un seno procace, anche quasi femminili e un sorriso molto accattivante.

“Come sei arrivato fin qui, omuncolo?” chiese il Wariti.

Sorrideva.

“Omuncolo sarai tu” azzardò Martino.

Il Wariti attenuò il sorriso.

“Dai, non ti sarai mica offeso!”.

“No. Ma non sono venuto di mia volontà”.

“Ma... Non dicevo nella zona protetta. Volevo dire come sei arrivato su Saudàr”.

“Appunto. Io non lo so. Qualcuno mi ha portato fin qui”.

Intanto arrivò un’altra Felpa, bella come l’altra, con piatti fumanti che dispose sul tavolo. Il profumo era delizioso. Ma prima l’uomo provò un sorso della bevanda ambrata che si trovò nel bicchiere. Niente male! Sembra davvero vino! Vino di Frascati ma con un meridionale retrogusto al Marsala!

A quel punto si dedicò al suo pesce, già pulito e guarnito con erbetta e fettine di un frutto simile al limone. Delizioso! E anche il contorno aveva un aroma e un sapore superbo.

Martino divorò tutto in un baleno, felice di non stare lui sul piatto al posto del pesce.

“Dopo pranzo” disse il Wariti “ci sarà l’esame. Vedremo se sarete ammessi”.

“Esame?” chiese l’uomo allarmato “Che tipo di esame?”.

“Ehi, furbacchione! Non vorrai mica che ti riveli in anticipo le domande che ti faranno?”.

Poi, rivolgendosi al Felpa: “Ma lo sa che deve sottoporsi all’esame?”.

“Lo sa, lo sa” disse Assurgaria “Forse non si ricorda”.

“Ah” disse Martino, ricordando gli accenni di Carsidia al territorio protetto e alle richieste di entrarci “Ma, abbiamo, per caso, chiesto asilo politico?”.

Il felpa gli si accostò e gli disse all’orecchio: “Non preoccuparti. E’ solo una pratica formale. Non saremo ammessi e ci libereranno”.

I due ‘carcerieri’ avevano visto e sentito tutto, e sorridevano soddisfatti.



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