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Il pianeta Saudar

Capitolo 2

Quando si svegliò si sentì perfettamente riposato, con la mente leggera e ancora con una voglia pressante di esplorare il nuovo mondo.
Quando un marinaio dell’equipaggio di Cristoforo Colombo o di Caboto o di Magellano si svegliava su una nuova terra sconosciuta doveva sentire un impulso analogo, ma con la certezza di avere intorno a sé molti compagni pronti a gettarsi nell’avventura con lui. Aveva certamente un reverenziale timore dell’ignoto, popolato di mostri fantastici, ma lo confortava la convinzione di essere venuto a combattere contro quei mostri per vincere e per conquistare la nuova terra, in nome di Dio, del re e della regina: scuse e insieme stimoli possenti.
Martino, invece, era solo, con un solo amico ipotetico, prima annunciato e poi negato.
A cinquant’anni era abituato ai comportamenti contraddittori. Sulla terra gli uomini e le donne affermano e poi smentiscono, promettono e non mantengono, offrono e poi rifiutano, appaiono e scompaiono continuamente. “Che tipi di uomini e donne frequenti?” gli avrebbe detto qualcuno di sua conoscenza. Ma lui gli avrebbe risposto: “Che tipi di uomini e donne ti fanno credere di frequentare?”. Non è che siano, per natura o per principio, tutti incoerenti, traditori e cialtroni. E’ che sulla terra, specie ai nostri giorni, i rapporti interpersonali sono molteplici e mutevoli e la vita è dinamica e vivace. Non poteva dunque meravigliarsi per l’incoerenza di un’aliena tanto simile ad una donna.
Ma qui, a distanze siderali da ogni traccia dell’umanità, il dubbio sull’esistenza di quest’amico poteva diventare ossessivo. E lo spirito d’avventura, il desiderio di scoprire il nuovo era temperato dalla solitudine e dal dubbio sulla autentica pacificità degli abitanti di Saudàr. Il dubbio, in fondo, è lo stesso che prende, sulla terra, chi si accinga ad attraversare una giungla, un deserto, o soltanto un paese straniero: sarà accolto con ospitalità dagli abitanti, sarà risparmiato dalle belve, o finirà, in un modo o nell’altro, assassinato?
Mentre era assorto in pensieri come questi, intorno a lui la luce, che al risveglio era fioca, andava a poco a poco aumentando. Quando lo notò, trovò confortante la somiglianza con un albeggiare terrestre.
Nessuna lampada era accesa nella stanza. Volle individuare la fonte di quella luce crescente. Si alzò e vide che veniva da una fessura sotto l’uscio. Aprì la porta e la luce lo abbagliò. Tese l’orecchio e non udì alcun rumore. Nessun essere vivente appariva nel corridoio. Allora Martino si diresse verso sinistra, da dove sembrava provenire la luce. Al fondo, il corridoio si piegava ad angolo retto sulla destra. Martino vi proseguì e, dopo alcuni passi, trovò, sulla sinistra, una finestra enorme con grandi lastre di materiale vitreo. Vi si accostò e vide finalmente un panorama del nuovo mondo.
Il cielo era grigio-roseo. Il territorio visibile aveva zone di tinta verde-bluastra e altre rosate. Il colore verde-bluastro era dovuto alle chiome di molti grandi alberi che si perdevano nella foschia di un orizzonte lontanissimo. Le macchie rosee non erano ben riconoscibili. Potevano essere costruzioni lontane o aree coltivate e fiorite. Fioriture invernali: è possibile.
Nelle vicinanze si vedeva parzialmente un cortile tutto coperto apparentemente di ghiaia di un colore variegato rosa e arancio. La costruzione in cui si trovava, a giudicare dalla distanza apparente del piano dal cortile, poteva essere alta, fino al suo piano, una decina di metri. Non riusciva a vedere nessuna parte esterna del suo palazzo perché la finestra era chiusa e non c’era una maniglia per aprirla. Martino rimase a lungo a contemplare il paesaggio. Quando tastò il vetro lo trovò freddissimo. Si aspettava di vedere sorgere un sole da un momento all’altro, ma presto si accorse che le ombre degli alberi erano quasi del tutto invisibili, proiettate all’indietro. Ciò significava che il sole stava sorgendo alle sue spalle. Decise di correre all’altro lato del palazzo: ci doveva essere un’altra finestra. Vide che alla sua destra il corridoio proseguiva per non più di dieci metri e poi piegava verso destra. Preferì prendere questa strada piuttosto che tornare sui suoi passi rischiando di ritrovarsi nel refettorio, dove ricordava di aver visto grandi finestre, ma al di sopra delle teste di tutti i rostri e carsidie.
A metà del nuovo lato di corridoio, lungo circa sessanta metri come quello opposto che portava al refettorio, c’era un’altra enorme finestra. Da questa vide un palazzo distante non più di cento metri. La facciata visibile aveva un colore giallino e quattro ordini di finestroni sovrapposti: quattro piani. Dal confronto poté capire di essere al terzo piano. Altri palazzi più lontani si intravedevano ai lati del primo con alberi interposti, dal tronco grigio contorto e dalla chioma blu verdastra. Le ombre sembravano proiettate sulla sinistra. I finestroni erano enormi macchie scure quadrangolari sulla superficie giallina. Il terzo piano, l’ultimo, aveva una sola lunga finestra. Il secondo ne aveva due, ma più strette, il primo tre, ancora più strette. Il piano terreno sembrava rientrare rispetto ai piani superiori e la sua facciata ristretta era quasi interamente occupata da un’apertura grande quanto la finestra dell’ultimo piano. Ai due lati estremi di questo piano due colonne ricurve, simili a grosse zampe di leoni, reggevano gli spigoli dell’intero palazzo. Si capiva che almeno altre due zampe simili dovevano essere sul retro dell’edificio. Sul palazzo non si vedeva un tetto spiovente; doveva quindi esserci un terrazzo.
Non un’anima si aggirava per il cortile, né un’ombra appariva alle finestre del palazzo più vicino. Quelli più lontani non offrivano sufficiente visibilità. Martino abbandonò presto anche questa finestra per proseguire fino in fondo al corridoio dove girò a destra e trovò, dopo pochi passi, la finestra che cercava.
Qui lo spettacolo fu, in parte, inaspettato: il sole c’era e occupava, con il suo disco rosso amaranto, da poco sorto interamente, una parte enorme sopra l’orizzonte. Intorno ad esso una luce accecante sfumava in lingue rosse, violacee e arancio che dilagavano per tutto il cielo visibile. La pianura sottostante era invasa incredibilmente dall’immagine di un altro sole sfavillante: doveva esserci uno specchio d’acqua. Sì, c’era un lago enorme che occupava gran parte del territorio visibile. Il resto era disseminato di sagome nere di alberi contorti simili a quelli già visti e di altre sagome che, ad un attento esame, si rivelarono costruzioni di foggia non usuale sulla terra: torri composte da piani circolari disposti eccentricamente l’uno sull’altro e culminanti con una guglia.
Mentre Martino stupefatto contemplava il paesaggio, un corpo in movimento entrò improvvisamente nel suo campo visivo e lo fece trasalire. Si voltò lasciandosi sfuggire un grido, subito soffocato. Era un rostro. Non ne aveva udito i passi nel corridoio.
Il nuovo arrivato gli si era affiancato e, mormorando qualcosa di incomprensibile, si era messo a contemplare l’alba a fianco a lui.
Martino ne poté osservare il profilo. Il naso non era poi così adunco, sembrava ricoperto di pelle morbida e rugosa, somigliava più alla corta proboscide di un tapiro che al becco di un rapace. Fu certo che questo non fosse l’accompagnatore di Carsidia, che era meno basso e curvo e, a quanto pareva, più collerico ed energico. Martino pensò con imbarazzo alla possibilità che i rostri si salutassero in qualche modo incontrandosi al mattino. Ormai erano passati alcuni minuti quando decise di provare a dire: “Buongiorno”.  La reazione fu immediata. Il rostro si voltò e, abbozzando una smorfia che doveva essere un sorriso, gli diede una pacca sulla schiena con una manona appesa a un braccio scimmiesco. Poi, senza dire niente, se ne andò. Fece pochi passi nel corridoio e scomparve dietro l’angolo.
Il sole intanto era salito un poco nel cielo. A Martino sembrò che la velocità dell’astro nel salire fosse sensibilmente inferiore a quella che si può osservare all’alba sulla terra.
Aveva appena sbirciato fuori delle finestre e già rilevanti differenze rispetto alla terra si potevano notare: il sole enorme, una rotazione del pianeta apparentemente più lenta, vaste pianure lussureggianti di una vegetazione simile a quella della terra, ma visibilmente più abbondante e vigorosa, rade costruzioni di strana architettura. Quali sorprese ancora lo aspettavano fuori dell’ospedale?
A questo punto si sentì improvvisamente stanco e affamato, come se solo in quel momento sentisse l’effetto della marcia veloce fatta per il corridoio, dopo giorni di riposo coatto. E insieme sentì gli altri impellenti bisogni che molti sentono ogni mattina: almeno mingere e almeno lavare alcune parti del corpo.
Si era accorto che delle numerose porte disposte lungo il lato interno del corridoio alcune erano più strette, e ricordò che quella della latrina usata il giorno prima era una di queste. Raggiunse la più vicina e la aprì. La stanza era vuota, con pochi mobili metallici non somiglianti a quelli di una toilette. Richiuse subito, anche se la curiosità lo avrebbe spinto a rimanere ad osservare, e si spinse fino alla prossima porta ridotta. Questa dava accesso a una stanzetta simile a quella visitata il giorno prima, con in più un gran cilindro trasparente che doveva essere la cabina di una doccia. Dopo l’uso del water, entrò nudo nel cilindro e se ne servì: l’acqua calda sprizzò da tutte le direzioni e, ugualmente, getti d’aria calda lo asciugarono rapidamente colpendolo in tutte le parti del corpo.
Dopo questo benefico trattamento, solo una vaga nostalgia per la famiglia e la casa lontana turbavano il suo appagamento. Rivestitosi, si diresse verso il refettorio, dove sperava di trovare una colazione non del tutto ripugnante. Appena fu giunto, lo spettacolo che gli apparve sulla soglia gli spense ogni speranza: i pochi individui presenti a quell’ora ricevevano dalle macchine le solite scodelle di poltiglia gialla.
Senza interprete non sapeva neppure se avrebbe ottenuto la poltiglia.
Una bella fanciulla del tipo di Carsidia gli si avvicinò sorridendo e gli disse qualcosa in lingua saudarica. Poi, come per toglierlo d’impaccio, ordinò una poltiglia e glie la mise in mano. Martino restò in piedi ad annusare il ben noto semolino, mentre la fanciulla tornava sui suoi passi.
“Perché non provare?” disse tra sé. Poggiò la scodella su una delle macchine, si avvicinò al microfono con cui tutti usavano trasmettere i loro ordini e gridò: “Cappuccino e cornetto”.
Anche questa volta la macchina ronzò per mezzo minuto e alla fine, incredibile, espulse una scodella con un liquido avana pallido.
“No!” fece Martino “E il cornetto?”.
La macchina ronzò ancora e dalla sua cloaca uscì una seconda scodella con una specie di pizza bianca.
“Beh, ci si può stare” pensò Martino. Prese le due scodelle e si sedette al primo tavolo vuoto.
Annusò il cappuccino e poi la pizza-cornetto. Assaggiò il cappuccino. Aveva un sapore di acqua calda zuccherata. Non c’era traccia né di caffè né di latte. Il cornetto aveva un sapore di panini all’olio dolciastri. Tuttavia tutto era molto al di sopra dei suoi timori. 
Aveva appena sbocconcellato più di metà del suo cornetto e sorseggiato tutto il cappuccino, quando arrivò Carsidia, con in mano la solita scodella di poltiglia e, indosso, una tuta verde.
“Bravo” disse “hai fatto tutto da solo! Sei andato al gabinetto?”.
“Naturalmente. Ho fatto anche la doccia. Le vostre docce sono meravigliose”.
Prima di iniziare il suo pasto Carsidia estrasse da una tasca un telefonino e lo porse a Martino dicendo:
“Tieni questo. Quando lo senti suonare spingi il pulsante bianco per parlare con me. Quando vuoi chiamarmi premi il pulsante giallo”.
Martino lo prese e lo osservò un po’, ma, almeno per ora, doveva tenerlo in mano perché il suo pigiama non aveva tasche. Forse avrebbe avuto anche lui una tuta come quella della ragazza.
Carsidia trangugiò rapidamente la sua razione, poi chiese a Martino che cosa avesse mangiato. Martino le offrì il pezzo di cornetto che gli era rimasto. La ragazza lo divorò, mostrando esageratamente di apprezzarlo.
Rimanendo seduti al tavolo, provarono la comunicazione tra i loro telefonini. Poi si alzarono e tornarono nella stanza di Martino. Qui il letto era già stato rifatto, e una tuta verde vi era distesa sopra. Martino stava per indossarla tenendo il pigiama, ma la ragazza lo invitò a denudarsi, prima. L’uomo obbedì senza alzare gli occhi ed ebbe la sensazione che la fanciulla lo osservasse con un sorriso ironico.
La tuta aveva l’interno felpato ed era dotata di molte tasche, in una delle quali l’uomo poté riporre finalmente il suo telefonino. Infine ebbe da calzare un paio di scarponi simili agli ‘anfibi’ dei militari e fu pronto per uscire. Quando fu sulla porta tornò indietro un momento per accarezzare il monitor del suo computer, che non aveva più usato dal giorno della sua cattura. Che fosse stato catturato era ancora convinto.
“Ah!” esclamò Carsidia “Ecco! Perché hai  accarezzato il tuo computer?”.
“Mah” fece Martino “E’ il mio vecchio computer. Ci sono affezionato”.
“E’ per questo che l’avevo scambiato per un tuo amico!”.
Martino ci rimase di stucco. Sembrava seria. O lo stava prendendo in giro? Si mise a ridere, ma l’espressione di Carsidia lo raggelò. Sembrava arrabbiata.
“Fanno amicizia anche con i computer?” pensò Martino.
Dunque l’amico catturato insieme a Martino non era altro che il suo computer! Questo ingenuo errore era stranissimo, inaudito. Catturare un uomo insieme al suo personal computer sarebbe stato spiegabile: sarebbe stato come prendere un bambino con il suo giocattolo preferito, o un cagnolino con la sua palla, per farlo giocare e distrarre. Ma confondere un computer con un amico che senso ha? Eppure una confusione simile per quegli alieni sembrava naturale.
“Va bene” fece Carsidia aprendo la porta “Andiamo”.
La ragazza, seguita dall’uomo, si diresse verso il refettorio, ma in fondo al corridoio aprì una porta a sinistra che dava su una larga rampa di scale che, verso il fondo, piegava a destra ad angolo retto. Al fondo della scala Carsidia aprì un gran portone, e i due si ritrovarono nel cortile. La luce era fortissima. L’enorme sole era ancora salito, appariva più piccolo, ma sempre molto più grande del sole terrestre: più o meno il triplo, rispetto alle dimensioni apparenti del piano orizzontale. Aveva perso le sue tinte rossastre e dardeggiava in un’aria inaspettatamente fresca e tersa.
La ghiaia era morbida: sembrava di gomma. Anche l’asfalto, che raggiunsero in pochi passi, era cedevole sotto i piedi. Al cancello, girarono a destra, percorsero un breve tratto di strada nel quale incontrarono due Carsidie e tre o quattro Rostri. Poi voltarono a sinistra. Nessun mezzo di locomozione si vedeva in giro. In pochi passi raggiunsero una delle torri a piani eccentrici che Martino aveva visto dalla finestra.
Vista dal basso la costruzione apparve imponente e deserta.
“E’ un monumento?” chiese Martino.
“No. E’ un palazzo. Su ogni piano c’è un bel terrazzo dove si può stare a prendere il sole. Vuoi entrarci?”.
“Sì. Mi piacerebbe... Ma è un palazzo pubblico?”.
Carsidia esitò un momento.
“Pubblico e privato” poi disse “sono concetti inesistenti su Saudàr. Ciò che per voi è il privato corrisponde più o meno alla riservatezza dell’individuo e al rispetto che gli è dovuto. Sulla terra questa riservatezza è, per così dire, riservata a chi possiede almeno una casa. Qui non è necessario possedere qualcosa per essere rispettati”.
Martino quasi rabbrividì. Il discorso di Carsidia era un’altra lezione di assurdità saudariana.
“Va bene” conciliò Martino “Ma questo palazzo è diverso dagli altri...”.
“E’ fatto secondo concetti architettonici moderni. Ce ne sono molti altri in città”.
“Ah. Qui non siamo in città?”.
“No. La città più vicina si chiama Corvasta ed è a circa 100 chilometri da qui”.
“E come si fa a raggiungerla?”.
“A piedi, in 5 o 6 giorni ci si arriva”.
“Ma è pazzesco! I mezzi di trasporto non esistono qui?”.
“Sì, ci sono autobus e macchine anche a 2 posti. Se vuoi, ne prendiamo una, ma preferirei prima andare qui in giro a piedi. In città ci andiamo un altro giorno. Sei d’accordo?”.
“Ok. Ma perché non si vede neppure una macchina in giro?”.
“Sai, la gente qui preferisce andare a piedi”.
“E gli autobus?”.
“Ah, gli autobus si prendono solo quando è necessario”.
Martino, sbalordito, si guardò intorno. Tutto quello che vedeva - alberi, case, foglie, qualcosa che somigliava a rocce, strada d’asfalto gommoso - sembrava innaturalmente pulito. Annusò l’aria, aspirò profondamente, e non avvertì il senso di nausea a cui sulla terra si era dovuto abituare. L’atmosfera era quella di un paradiso terrestre.
“Andiamo?” fece Carsidia. E lo condusse nella torre eccentrica. Attraversarono un piccolo cortile coperto di ghiaia morbida come quello dell’ospedale da cui erano partiti, salirono una ventina di gradini e uscirono sul primo terrazzo.
Era arredato con sedie a sdraio e piante ornamentali di strana foggia, alcune con fiori, altre con frutta. I frutti erano grandi come mele e avevano un bel colore roseo. Martino chiese se fossero mangerecci. Alla risposta affermativa, Martino ne staccò uno dal ramo e lo morse. Aveva un sapore paradisiaco, simile a quello del mango. Carsidia lo imitò, ma subito depose il frutto morsicato nel vaso. Non sembrava gradirlo.
“Preferisce la poltiglia?” pensò Martino “Non è possibile! Lei stessa è un bel frutto appena maturato. Non può essersi formata così con quella poltiglia! Capisco i Rostri...”.
Sotto i suoi occhi, ancora masticando, Carsidia si denudò e si distese su una sdraio per esporsi ai raggi di quel sole colossale. E l’uomo, dopo una breve imbarazzata esitazione, non poté fare altro che imitarla. Si guardò intorno. Non c’era nessuno. Qualche voce, per così dire, umana si udiva provenire dall’interno del palazzo.
Una musica dolcissima, simile a melodie cinesi o indiane, incominciò a diffondersi nell’aria. In un primo momento non era certo di udirla davvero. Poi Carsidia gli chiese se gli piacesse.
“E’ deliziosa” rispose Martino “ma da dove viene?”.
Veniva dall’interno dell’edificio.
“E’ una radio” disse Carsidia “L’ho accesa io con il telecomando”.
L’uomo vide che la ragazza aveva in mano il telefonino.
“Si può anche cambiare canale?”.
“Certamente”. Premette un bottone e si udì qualcosa che somigliava a un notiziario, in lingua saudarica.
“No, no” disse Martino “Torna pure alla musica. La vostra lingua per me è... arabo”.
“Ma capisco io, per te. Sta dicendo che al centro spaziale hanno scoperto un altro pianeta abitato da esseri viventi. E’ il 29esimo in tutto l’universo conosciuto. La vita però è ancora a uno stadio primitivo. Gli scienziati pensano di avvantaggiarsene per approfondire le conoscenze, che poi ci trasmetteranno”.
“Ma di guerre, povertà, stragi, rapine non parlano mai?”.
“Oh, ascolta. Dicono che un Hernafrogus Dirus è scappato dallo zoo e si è nascosto nella foresta di Groapesteria. Dicono che è un animale molto pericoloso”.
“Che razza di animale?”.
“Non so. Non l’ho mai visto. E’ sicuramente una specie estinta in natura e vive solo negli zoo”.
“Corriamo il rischio di incontrarlo?”.
“No. Siamo distanti. Siamo molto più a sud di quella foresta. In poco tempo i guardiani lo cattureranno”.
“E nei boschi qui intorno ci sono animali?”.
“Certo. Poi ci andiamo. Sicuramente ne vedremo qualcuno. Prima però andiamo ai piani superiori”.
Si alzò e si rivestì rapidamente. Indossare la tuta, senza avere alcun tipo di biancheria, era semplicissimo. Lo fece subito anche Martino e seguì la ragazza per le scale.
Salirono al piano superiore.
“Ma non ci sono ascensori qui?”.
“A nessun saudariano verrebbe in mente di usare un ascensore”.
“Ma questo è veramente un altro mondo!” fece Martino con un pizzico di ironia. “Ammesso pure che nessuno qui abbia mai fretta, un vecchio che abiti all’ultimo piano come fa?”.
“La vecchiaia è una malattia che noi abbiamo debellato. Naturalmente può succedere che uno soffra temporaneamente di qualche forma di astenia. In tal caso un energetico lo rimette in sesto. E poi abbiamo altri mezzi...”.
La ragazza parlava con la sua solita sicurezza da prima della classe. L’uomo aveva l’impressione di essere preso in giro.
“Senti, Carsidia, non è possibile che qui non ci siano problemi, che tutto sia risolto per sempre, che non capitino incidenti o guasti. Per favore, non prendermi in giro. Spiegami veramente come stanno le cose”.
Intanto, salendo, avevano raggiunto l’ultimo piano e stavano per uscire sul terrazzo. Carsidia era leggermente affannata, ma l’uomo quasi rantolava ed era tutto sudato.
“Ecco, vedi” disse slacciandosi la tuta. “Ora io sono tutto sudato e affannato. Devo per forza spogliarmi, ma può darsi che mi raffreddo, mi ammalo. E anche tu, non mi sembri invulnerabile. Se, per esempio, ora che abbiamo usato le scale, tu cadevi e ti rompevi una gamba, che facevi?”.
Carsidia sorrise, molto sicura di sé.
“Non c’è nessun pericolo” disse “Hai visto che anche le scale sono morbide. Se si cade non ci si fa male”.
Sono morbide? Non se n’era accorto!
Sul terrazzo una decina di rostri prendevano il sole sulle sdraio. A Martino, a prima vista, sembrò che indossassero tutti una tuta dai riflessi verdastri, poi si rese conto che quei riflessi provenivano dai loro corpi nudi. Rimase incantato a rimirarli. Sei di essi avevano evidenti attributi maschili penduli tra le gambe: notevoli attributi. Gli altri quattro dovevano essere femmine: non avevano che una leggera peluria scura sul pube e mammelle appena pronunciate. Ecco perché non aveva mai notato femmine tra tutti i rostri che aveva visto nel refettorio e nei corridoi: da vestite non si potevano distinguere. Sulla pelle del volto quei riflessi verdastri erano appena percettibili.
Quando videro i due nuovi arrivati smisero di chiacchierare e sorrisero. Tre di loro si alzarono per offrire le loro sdraio, ma Carsidia rifiutò garbatamente e tenne un breve discorso di presentazione in saudariano. Poi si liberò della tuta, subito imitata da Martino, e si diresse verso il parapetto dove, all’ombra di quello che sembrava un bel pruno con frutti violacei, poterono ammirare il paesaggio. Il sole ormai era abbastanza alto. Sulla terra si sarebbe detto che fossero circa le 10 o le 10 e 30 del mattino. Il lago aveva assunto tinte argentee e un continuo scintillio. La brezza leggera arrivava anche sul terrazzo producendo un allegro stormire di fronde e mitigando l’ardore del sole. Ai lati del lago, cinque o sei fabbricati di fogge e colori diversi spiccavano tra gli alberi di una foresta visibile fino all’orizzonte. Rimasero a lungo a guardare. Anche la ragazza sembrava estasiata di fronte a quel magnifico spettacolo naturale. A Martino sembrò di notare un frullo d’ali in un punto della riva destra del lago. Lo indicò a Carsidia.
“Non so. Non l’ho visto.” disse la ragazza “Poteva essere un uccello o un insetto”.
“Insetto? Ci sono insetti molto grandi?”.
“Oh, sì. Anche voi ne avete: coleotteri giganti. I nostri forse sono più grandi: come un piccione...”.
“Davvero? Da noi insetti di quel tipo vivono solo in Africa. Io ne ho visto uno imbalsamato in un museo. Ma vivi non ne ho mai visti... Sono innocui?”.
“Beh, se ti colpiscono mentre volano ti possono far male...”.
“Senti. Non avevi detto che siamo in inverno?”.
“Sì. Ma oggi è una giornata molto calda per la stagione. Però il freddo e il maltempo torneranno nel pomeriggio”.
“Sulla terra, d’inverno, i coleotteri e gli altri insetti dormono”:
“Hai ragione. Anche qui”.
“Allora quello che ho visto poteva essere solo un uccello”.
“E’ vero...Esistono anche altri animali volanti: le platicalie. Ma anche queste dormono d’inverno”.
“Platicalie? E che tipo di animali sono?”
“Rettili volanti”.
“Incredibile!... E sono grandi?”.
“Più o meno quanto un tacchino o un condor”.
“E che forma hanno? Somigliano ai nostri pterodattili?”.
“Sì, abbastanza. Ma hanno un lungo becco a forma di spatola pieno di denti che usano per nutrirsi di pesci e crostacei del lago”.
“Vivono solo intorno a questo lago?”.
“No. In tutte le zone temperate, in riva ai laghi e ai grandi fiumi”.
“Tutto questo è molto interessante. Mi piacerebbe vederne qualcuno”.
“Ne vedrai di sicuro”.
A Martino quest’affermazione suscitò un po’ di angoscia. Per vederli doveva fermarsi in questo paradiso almeno fino all’estate. E quindi il ritorno sulla terra, se mai poteva sperarci, doveva ritardare.
“Quando verrà la primavera?”.
“Tra circa due mesi”.
“Sessanta giorni?...”.
“Già. Parlo di due mesi terrestri. Qui non esistono mesi. Esistono le 4 stagioni, perché anche l’asse di Saudàr è inclinato. Non esistono neppure le ore. Il giorno è diviso in 4 parti: mattino, pomeriggio, sera e notte fonda. Un giorno, cioè la rotazione di Saudàr intorno al proprio asse, dura all’incirca 30 delle vostre ore. Se vuoi puoi controllare sul tuo orologio”.
Martino fece l’atto automatico di guardare il suo polso sinistro, ma subito si ricordò di non avere un orologio da polso”.
“Parlo dell’orologio del tuo telefonino.” riprese la ragazza “Oppure puoi guardare, dopo, sul tuo computer. Un anno intero dura 320 giorni di Saudàr. Ogni stagione è di 80 giorni”.
“E’ facilissimo da ricordare” disse Martino “ma come fate a vivere senza tenere conto né delle ore né dei minuti che passano? In giro non ho visto niente che somigli ai nostri orologi... Immagino che non abbiate neppure le settimane”.
“No. Infatti. Voi avete i mesi perché avete la luna. Noi non l’abbiamo. E la settimana vi serve per dosare il vostro tempo di lavoro e di riposo. Da noi non esiste questa differenza”.
“Mi pare tutto pazzesco. Ci vogliono nervi d’acciaio per non curarsi degli incidenti, del futuro, di tutto quello che c’è da fare... Eppure qui tutto sembra essere ordinato e tranquillo. Per ottenere qualcosa di simile, sulla terra sarebbe necessaria almeno una grande azienda bene organizzata, con molti impiegati e operai: ci vogliono quelli che organizzano e pianificano il lavoro, i turni, gli orari; quelli che puliscono le strade, le stanze, le terrazze; quelli che guidano gli autobus e gli altri mezzi di trasporto; quelli che trasportano le derrate alimentari, gli indumenti, il materiale edile; quelli che cucinano, apparecchiano e sparecchiano; quelli che rifanno i letti; quelli che coltivano la terra e allevano gli animali; quelli che costruiscono le case; e poi i sarti, i medici, i fornai, i lattai, i macellai, gli uffici postali, gli avvocati, i notai... Voglio dire che noi abbiamo delle specializzazioni, per garantire un alto grado di efficienza... Ma penso che ci siano anche qua: io non ho visto ancora niente...”. 
“Ovviamente abbiamo alcune specializzazioni anche noi, ma soprattutto abbiamo una automazione molto sviluppata. Per esempio, se guardi bene le stanze e i corridoi, le terrazze, le strade, le scale, noterai che ci sono delle fessure...”.
“Fessure? Dove?”.
“Guarda” fece Carsidia accovacciandosi. E gli mostrò le fessure, quasi invisibili, praticate alla base del parapetto e, a brevi intervalli regolari, su tutto il pavimento del terrazzo.
“Attraverso queste fessure tutta la polvere viene aspirata cinque volte al giorno. Di notte invece per le stesse fessure viene sparso sul pavimento un velo di liquido detergente e disinfettante. Per i rifiuti più voluminosi ci sono questi tubi. Premette un piccolo pulsante nascosto sotto il bordo sporgente del parapetto e, poco più sotto, si aprì una finestrella basculante da cui provenne un rumore di aspiratore elettrico. Dopo qualche secondo lo sportello si richiuse automaticamente. Martino poté notare su tutta la parete e sul parapetto una serie numerosa di finestrelle come quella, ma di tre misure diverse. La più grande poteva servire per buttare via un comodino. E per un armadio?...
“Ma qui sotto ci deve essere una rete di tubi e un aspiratore potentissimo!...”
“Ogni fabbricato ha un serbatoio sotterraneo con propri tubi e aspiratori. I serbatoi dei fabbricati comunicano attraverso altri tubi con serbatoi più grandi dove tutti i rifiuti vengono smistati automaticamente e riciclati”.
“Ah, ecco. A dir la verità, anche noi, sulla terra, ricicliamo qualcosa dei rifiuti…”.
“Lo so, lo so, ma noi ricicliamo tutto: circa il 70% serve a rigenerare diversi materiali, il resto viene trasformato in carburante non inquinante”.
A Martino venne da ridere.
“Stai scherzando.” disse “Questo è inimmaginabile… Sulla terra il carburante estratto dai rifiuti, anche se arrivasse, come qui, al  30%, non basterebbe a muovere tutti i motori necessari per un sistema poderoso come questo. E il petrolio è quasi esaurito”.
“L’energia principale” disse Carsidia “ è quella del nostro sole. Il pavimento su cui tu ti muovi, come quello delle strade, è costituito da un materiale speciale che assorbe il calore del sole e lo trasforma in energia elettrica. Ne abbiamo molto più del necessario, tenendo conto che le nostre popolazioni civili sono mantenute stabili”.
“Come? Quanti siete?”.
“Quanti siamo? Un momento…”.
Carsidia premette qualche tasto sul suo telefonino, che, evidentemente, non era solo un telefono e un telecomando, ma anche un computer o un terminale di un computer centrale, e rispose:
“In questo momento i rostri sono circa 600 milioni, noi quasi un miliardo. Ma tu vedi quanto spazio abbiamo, quante foreste. Molti luoghi del pianeta sono stati solo sorvolati, mai esplorati a piedi… Mi piacerebbe andare a vedere uno di questi luoghi. E a te?”.
“Ah, per me è tutto nuovo. Ma quando ero sulla terra i luoghi inesplorati mi affascinavano. Quando ero giovane pensavo… pensavo tante cose, ma anche che da grande avrei fatto l’esploratore. Ma non ne ho mai avuto i mezzi. La vita mi ha portato a vivere in città, tra i computer, le macchine…”.
Tacquero per un po’, contemplando il paesaggio. Il terrazzo fu investito da un soffio di vento improvviso. Martino rabbrividì e corse a indossare la sua tuta, subito imitato dalla sua compagna. I rostri, sdraiati sulle loro sdraio, non si mossero. Continuavano a conversare e a sorridere.
“I rostri” disse Martino mentre si avviava con la sua guida verso le scale “sono una razza strana. Sembrano tutti vecchi. Eppure non può essere. E non ho visto nessun bambino”.
Carsidia sorrise.
“Non hai visto nessun bambino” disse “ nemmeno della nostra specie, perché i bambini vengono tenuti negli asili”.
La notizia lo fece rabbrividire.
“Davvero?” disse “Ma solo di giorno o anche di notte?”.
“Anche di notte”.
“Perciò non esistono rapporti tra i figli e i genitori?”.
“Mah…” Carsidia esitò un momento. Poi riprese: “Esistono rapporti come tra tutti i cittadini civili. In certe feste i genitori vengono invitati ad andare a visitare i loro figli negli asili. Fanno un chiasso spaventoso, tutti insieme. In quelle occasioni i genitori portano dei regali ai bambini e poi possono appartarsi con loro nei giardini o nelle loro camerette e stanno lì per molte ore a conversare, ad abbracciarli e a baciarli. Molti di loro approfittano di quei momenti per raccontare la loro storia. E i bambini stanno lì incantati ad ascoltarli, finché non crollano dal sonno. Allora i genitori vanno via, ma possono chiamarli al telefono quando vogliono… purché non li importunino”.
“Come è possibile?” protestò Martino “Come può un genitore importunare un bambino?”.
Carsidia lo fissò dritto negli occhi.
“Ma da dove vieni?” disse “Io conosco bene le abitudini dei terrestri. Da dove credi che vengano i disagi psicologici dei vostri bambini che poi, da grandi, diventano paranoici, schizofrenici, ansiosi, ossessivi, sadici, masochisti…”.
“Va bene, va bene, ho capito. Ma le balie, le maestre, gli assistenti, i professori… Avete pensato che qualcuno di loro potrebbe importunare i bambini?”.
“Beh” disse Carsidia “il personale degli asili è addestrato accuratamente con un corso di laurea di… sì… credo di dieci anni”.
Martino aprì la bocca per rispondere, ma tacque. La notizia… l’argomento era enorme e problematico. Erano arrivati in fondo alla scala e si erano soffermati sulla ghiaia del cortile. In fondo, Martino sentiva di approvare lo strabiliante metodo educativo esposto da Carsidia. Forse qualunque terreste con un po’ di buonsenso lo avrebbe approvato. Certamente, quel metodo non poteva essere perfetto, miracoloso. Doveva avere qualche pecca. Tra l’altro, Carsidia, non dava l’impressione di esserne entusiasta: aveva detto che i genitori, quando si incontravano con i bambini, facevano un gran chiasso e alcuni di loro si compiacevano di raccontare la loro storia ai bambini, fino a farli crollare dal sonno…
“I bambini” riprese Martino “amano sentirsi raccontare qualcosa. Sulla terra le mamme raccontano favole meravigliose…”.
“Lo so.” disse Carsidia “Qui nelle menti, nei ricordi della gente rimangono le storie dei genitori che, quasi sempre, si connettono con la storia dei nonni e di vari antenati. Gli educatori favoriscono questa usanza. Le storie si trasmettono facilmente da un bambino all’altro e diventano un patrimonio comune della società, insieme alla grande storia del pianeta e dell’universo”.
“Un momento.” disse Martino “Queste abitudini sono le stesse nelle due popolazioni, nelle due razze?”.
“Non sono razze.” disse Carsidia sorridendo “Siamo due specie diverse, ma molto bene integrate e felicemente conviventi”.
“Ah già. Due specie diverse. Ma da quanto tempo convivete?”.
“Da circa tremila anni. Prima noi non c’eravamo”.
“Come? Che vuol dire?”.
“E’ semplice. I primi Wariti furono costruiti dai Felpa, che sono quelli che tu chiami Rostri”.
Ancora una volta Martino rimase stupefatto. Ripensò alla prima impressione che aveva avuto della pelle così liscia di Carsidia, e al fatto che il suo corpo non emanava alcun odore. Le si avvicinò per annusarla di nuovo, ma, questa volta, gli sembrò di sentire qualche tenue effluvio. Si era profumata?
A questo punto sbottò: “Come costruiti? Che vuol dire? Siete dei robot?”.
“Non proprio.” rispose Carsidia “Anche in terra si cominciava a usarla: siamo frutti di un’operazione di quella che voi chiamavate ingegneria genetica”.
“No! Possibile? Ma come modello le Felpe avevano sicuramente gli esseri umani!”.
“Forse. All’inizio fu solo un esperimento. I primi Wariti non avevano ancora le buone qualità dei discendenti che sono stati molto migliorati nei secoli successivi".
“Ma questo è terribile, è mostruoso!”.
“Perché?”.
“Ma lo sperimentatore può sbagliare! I risultati possono essere mostruosi! Come si fa ad assumersi queste responsabilità? I frutti dell’errore e quelli che gli stanno intorno possono soffrire orribilmente per colpa di chi ha sbagliato l’esperimento!”.
“Guarda, Martino, io conosco molto bene tutta la storia. Non ci furono né errori irreparabili né grandi sofferenze. Quando i Felpa iniziarono questi esperimenti, la medicina aveva già compiuto progressi giganteschi nella cura e nella guarigione delle malattie e di ogni anomalia biologica e genetica. Perciò gli errori si potevano correggere in breve tempo e senza gravi conseguenze. C’è un principio scritto dai nostri antenati comuni nella nostra Costituzione: le persone… ma anche gli animali… non devono soffrire”.
“Ma dai!” disse Martino “Non devono soffrire! E se uno cade… non so, su una roccia… e si fa male o si prende una malattia incurabile? Non posso credere che questo pianeta sia una specie di paradiso terrestre e che qui c’è sempre un rimedio per tutto”.
Carsidia rimase un po’ in silenzio, come assorta. Aveva una mano nella tasca dove aveva il telefonino. Martino si accorse che stava muovendo le dita. Poi Carsidia riprese: “Paradiso terrestre, sì, ho capito… Forse ho citato male quell’articolo della nostra Costituzione. Non è che su questo pianeta non esista la possibilità di soffrire…”.
“Ah, ecco…”.
“Ma noi e i nostri antenati non possiamo fare a meno di lottare con tutte le nostre forze per alleviare il dolore, non con rimedi effimeri che nascondano solo temporaneamente le sensazioni dolorose. Il dolore lo vogliamo distruggere, allontanare per sempre: è per questo che lavoriamo. Vogliamo che tutti siano felici… Tu hai sofferto nel nostro ospedale?”.
“No. O almeno non molto. No, non ho sentito alcun dolore. Ma ho provato altri tipi di sofferenza: non ero affatto contento di non potermi muovere e di stare lontano dai miei familiari”.

 


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