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Il pianeta Saudar

Capitolo 1

“Ampelorèma rapù daconergà faleru”.
“Argorù, argorù. Zanidakastra adelò fascaria Kabroska”.
“Martù, Martù”.

Quest’ultima parola, ripetuta da una flebile voce femminile, gli suonò familiare. Ma il resto era incomprensibile. E l’altra voce, maschile, metallica, non era affatto gradevole.
Sapeva di essere ancora in un sogno, anche se quasi al risveglio. In quei momenti, al culmine delle storie sognate si manifesta spesso la coscienza di sognare. Poi, a volte, si torna a sognare.
“Martù, Martù”.
Ripeté la voce incantevole come un suono di flauto. Erano almeno trent’anni che non si sentiva chiamare così Martino Pollastri, detto il Granchio.
Martino aprì gli occhi e si ritrovò in un letto, in una stanza in penombra, con due persone ritte in piedi che lo guardavano, poco visibili per via della luce fioca.
Una delle due, la donna che l’aveva chiamato “Martù”, si accostò al letto, entrando in una zona più illuminata, e gli disse:
“Ben venido, Martuccio, nel nuestro paìs”.
“Grazie”, disse Martino, “ma perché non sono più nel mio letto, a casa mia? Che è successo?”.
“Kabrò, Kabroska” tuonò la voce maschile e metallica dell’omaccione dietro di lei.
A Martino non piacque. Ne fu quasi spaventato. Strizzò gli occhi per vederlo meglio. Gli parve che al posto del naso avesse una specie di rostro. Allora preferì guardare la donna: sembrava bellissima, sorridente e amichevole.
“Casa tua stava crollando” diceva la ragazza “quando ti abbiamo preso col tuo amico e ti abbiamo portato qui”.
Che succedeva? Come era potuto succedere che la sua casa crollasse? E la ragazza sembrava che stesse cominciando quasi a parlare in italiano. 
“Non ricordi come era difficile respirare? C’era puzza di fumo nella tua stanza e tua moglie aveva acceso il ventilatore per mandarlo via. E tu maledicevi il tuo vicino che t’appestava di fumo. Ma, in quel momento, il vizio del tuo vicino era solo una goccia nell’oceano di gas tossici che stavano inquinando la tua atmosfera. E anche questo era solo un aspetto della catastrofe...”.
Martino non ricordava niente: né il crollo della sua casa né l’amico che, secondo la ragazza, era con lui al momento della catastrofe.
Gli vennero in mente le scene dei tanti terremoti, incendi, alluvioni e uragani trasmessi dalla televisione negli ultimi tempi.
Erano gli anni di fine millennio e queste scene ricordavano la fine del mondo paventata dai profeti di molte religioni. Ma le vicende che seguivano sui luoghi dei disastri rivelavano una continuità nella vita quotidiana fatta di grande solidarietà dichiarata da fonti governative e di infame non troppo reclamizzata ruberia e rapina.
“Kabroska paralomè kataparonà belù” disse l’uomo dal rostro.
La fanciulla sorridente spiegò che il suo compagno voleva conoscere la ragione dell’appellativo di “granchio”.
“Mi chiamavano così”, disse Martino, “perché da giovane, a scuola, quando m’impuntavo su un argomento, non lo mollavo più per giorni e giorni... Era perché volevo arrivare a capire bene... Poi il vizio m’è passato, ma il soprannome mi è rimasto”.
L’uomo dal rostro rise metallicamente e Martino ne fu rassicurato.
Cercò di alzare la testa, ma si sentiva spossato. Si accorse di avere un tubicino flessibile fissato al polso destro. Sicuramente gli stavano iniettando del liquido in una vena. Guardò a destra verso l’alto e vide il vaso vitreo da cui pendeva il tubo. Sullo sfondo, nella penombra, gli parve di vedere un oggetto familiare. Guardò meglio: sì, era il suo computer. Allora ricordò che le sue ultime azioni, prima di ritrovarsi in quella strana e preoccupante situazione, erano state quelle quotidiane di lavoro al computer nel suo sgabuzzino. Ricordò che Marcella, un’amica di sua moglie Livia, gli aveva commissionato una figura dai colori tenui da usare come sfondo di una carta intestata per suo marito medico. Per risalire alle radici mitiche della Medicina, Martino aveva disegnato il centauro Chirone, maestro, fra gli altri, di Asclepio, ma sapeva che a Marcella non sarebbe piaciuto. Ricordò di avere appena corretto la coscia anteriore destra del centauro, copiato da una vecchia stampa, per rendere meglio la vigorosa tensione muscolare, e di essere ormai pronto ad attenuare il colore seppia della figura, usando uno degli strumenti grafici del suo computer... E poi? Dopo questo non c’erano altri ricordi nella sua mente. Si preoccupò, pensando di non aver salvato in memoria il disegno dopo gli ultimi ritocchi. Ma sapeva, per esperienza, di essere in grado di rifarli con piccolo sforzo.
Guardando meglio, il computer gli sembrò acceso, e sullo schermo vide l’immagine del centauro. Ne fu stupito.
“Perché avete portato qui il mio computer? E perché l’avete acceso?”.
La fanciulla si volse all’uomo dal rostro con aria interrogativa.
Il rostro incominciò a sbraitare nella sua lingua incomprensibile. E la ragazza gli rispondeva alzando la voce. Sembrava una lingua slava, forse albanese, forse jugoslavo o russo. Uscirono dalla stanza lasciando solo Martino, il quale avrebbe voluto fermarli, chiedere loro scusa per aver dato forse l’impressione di volerli rimproverare. Sicuramente erano andati a continuare la discussione con altri individui, forse con il loro capo.
Martino cercò di approfittare della solitudine per alzarsi, ma non ci riuscì. Cercò di capire dalle voci se i due si stessero allontanando o fossero rimasti nei paraggi. Ma ormai non si udiva più nulla: si erano allontanati.
Si guardò intorno. La ragazza aveva detto che l’avevano preso assieme a un amico, ma chi poteva essere? Non ricordava di essere stato in compagnia di qualcuno mentre lavorava al Chirone. Questi lavori di solito li faceva in solitudine. Aveva bisogno di concentrarsi.
Ma chi erano questi salvatori? Come avevano fatto ad estrarli dalle macerie? Cercò di ricordare gli istanti del crollo. Ma nessuna scena simile a quelle dei disastri veduti in TV gli venne in mente. Se fosse stato investito dal palazzo crollato avrebbe dovuto avere parecchie ferite su tutto il corpo. Sollevò la copertina leggera con la mano sinistra, che era libera, ma non vide fasciature né tumefazioni sul suo corpo. Vide che aveva indosso un pigiama sconosciuto di colore bianco-roseo cangiante. Scappare indossando quell’indumento significava attirare l’attenzione dei passanti. E poi chissà in quale città, in quale parte del mondo si trovava: non avrebbe saputo orientarsi, non avrebbe potuto interrogare nessuno con quella lingua pazzesca...
Parte del mondo? Ma qui quanto gli stava accadendo sembrava fuori del mondo! Sembrava proprio che gli fosse capitato quello che tante persone, in America e in altri paesi, avevano dichiarato di avere sperimentato, ma a cui era difficile credere: essere rapiti dagli alieni.
Martino guardò tutte le pareti della stanza, cercando una finestra che non trovò. Sembrava una stanza d’ospedale, ma senza finestre. Poteva anche essere una sala operatoria.
Forse stava ancora sognando.
Si addormentò. Molte volte si svegliò e si riaddormentò. Quando si svegliava si rendeva conto che quell’incubo continuava. Non aveva alcun dolore, non sentiva né fame, né sete, ma solo una spossatezza tale da tenerlo inchiodato nel letto.
Quando finalmente ebbe un risveglio più efficace, sentì che la stanchezza si era attenuata e poté mettersi seduto. Non sapeva quanto tempo fosse passato: ore, giorni, o addirittura settimane...
In quel momento rientrarono la ragazza e il Rostro. Questa volta anche il Rostro sorrideva con il suo volto animalesco.
“Buon giorno”, fece la ragazza, “Siamo contenti che stai meglio”.
Dunque la sua era una vera malattia. Guardò il suo polso, dove era ancora legato il tubicino, e si accorse che nessun ago vi era infisso. Ne domandò la ragione.
“Ago?...” disse la ragazza “Ah, gli aghi servivano per cucire”.
A queste parole, Martino capì subito di trovarsi di fronte ad esseri di una civiltà superiore. Il sentimento da cui fu invaso, mentre gli si rizzavano i capelli e i peli della barba, era misto di terrore e di stupore quasi piacevole. Si sentì come un animaletto impotente, completamente in loro balìa.
“Che volete da me?” chiese col tono più gentile che poté trovare “Perché mi avete rapito?”
“Oh, no” si affrettò a rispondere la ragazza “Noi non ti abbiamo rapito. Ti abbiamo portato qui perché eri in pericolo. Ed ora, come vedi, sei quasi guarito”.
Martino non ci credeva, non si fidava. Ricordò che si erano arrabbiati ed erano usciti, quasi sbattendo la porta...
“Quanto tempo è passato?” chiese mentre, sotto la coperta, si sfilava il tubo dal polso.
“Oh, solo tre giorni. Io sono venuta ogni tanto a vederti”.
Era sempre sorridente.
“Riuscirò ad alzarmi e ad uscire da questa stanza?”
“Ma certo. Io ti accompagnerò a visitare la nostra città. Credo che ti piacerà, Martuccio”.
Ecco, l’aveva di nuovo chiamato Martuccio, come solo sua madre aveva fatto e non faceva più da più di trent’anni. Ma che ne sapeva costei?
“E tu come ti chiami?” fece Martino, guardandola meglio.
Era ritta in piedi davanti a lui e indossava una leggera tunica bianca con riflessi azzurri. I capelli biondi erano raccolti dietro il capo, alla maniera delle antiche patrizie romane. Le parti scoperte - volto, braccia, mani, piedi e caviglie - erano di un delizioso colore incarnato e di una levigatezza indicibile. Calzava sandali bruni. Il pavimento sembrava marmoreo, color porfido rosso.
“Ha ovviamente l’aspetto di un angelo, come tutti gli alieni benigni descritti nelle storielle di fantascienza” disse a se stesso.
“Chiamami Carsidia.” disse la ragazza “E’ un nome che somiglia un po’ a quelli della tua terra e nella nostra lingua significa: voce del risveglio”.
“Ma perché dici: chiamami? Che vuoi dire? Non è il nome che ti danno anche gli altri?”
La domanda di Martino fece attenuare il sorriso della ragazza.
“Ectòrodo, Ectòrodo” tuonò la voce metallica del Rostro.
“Ecco, il Rostro ti ha detto il mio nome” disse Carsidia.
“Ma quello si chiama davvero Rostro?” chiese con stupore Martino.
“No, è il suo soprannome...” E dopo un attimo: “L’hai suggerito tu”.
Martino si incollerì. Ma come? I nomi e i soprannomi qui si inventavano là per là, a seconda delle occasioni, accettando pure i suggerimenti degli estranei? Non ricordava però di averlo mai fatto. E intanto il Rostro sghignazzava senza ritegno.
Martino si alzò in piedi e s’avvide di essere in grado di muovere qualche passo. Gli alieni non avevano notato, o non avevano voluto mostrare di aver notato, che lui si era tolto il tubo. Carsidia gli afferrò un braccio per sostenerlo, con una forza innaturale per una fanciulla dall’aspetto così fragile. L’uomo ne trasse una sensazione sgradevole. Era abituato alla debolezza femminile. L’inaspettata forza di Carsidia per lui era una novità difficile da mandare giù. Per la verità, anche sulla terra, negli ultimi anni aveva dovuto ingoiare tipi di comportamento inauditi che osservava nei suoi figli, man mano che crescevano, e nei loro amici. Un rivolgimento notevole era avvenuto nella mentalità e nello stile di vita dei suoi conterranei negli ultimi tempi, sicché anche in terra si sentiva come in mezzo agli alieni. Ma forse, a pensarci bene, si era sempre sentito circondato da gente estranea e, molto spesso, ostile. Era nato, si poteva dire, con una visione della vita diversa da quella degli altri.
Era nato in Italia, uno degli stati d’Europa, nel 1950. Da piccolo giocava con pupazzi di peluche e cantava canzoni che sentiva alla radio. Gli piaceva essere coccolato dalla madre e dagli altri adulti che vivevano con lui: suo padre, sua nonna, due sorelle e un fratello, tutti maggiori di lui. Ma la compagnia dei coetanei non lo interessava: li trovava aggressivi. All’asilo piangeva tutto il giorno e non vedeva l’ora che lo venissero a riprendere. Di asilo, fece al massimo tre giorni, non contigui. Poi fece le scuole elementari, le medie e le superiori in un lungo periodo di transizione in cui ipocrite voci strombazzanti avevano preso a propagandare il pericolo di una crescente rarità delle nascite. Questo tipo di propaganda ebbe un potere sconvolgente nei comportamenti della gente in quel tempo. Arrivarono a dire che, se non ci fosse stato un numero sufficiente di giovani, i vecchi non avrebbero potuto essere mantenuti. Un suo professore anticonformista di Storia e Filosofia disse un giorno che una civiltà incapace di mantenere e proteggere i suoi vecchi non era degna di perpetuarsi. E la storia mostrò poi che buona parte dei giovani rimasti non avrebbero neppure trovato un lavoro. L’idea di non trovare un lavoro, ma anche quella di non potere essere mantenuto da vecchio, lo faceva inorridire. I ragazzi e le ragazze che frequentava avevano, come i pochi compagni della sua infanzia, atteggiamenti aggressivi e, spesso, arroganti. Accettavano di svolgere attività di ogni genere con lui a condizione che lui non alzasse la cresta. Se lo faceva, se prendeva qualche iniziativa, se un giorno voleva stabilire lui le regole, veniva subito represso. Generalmente passava le sue giornate in solitudine, sognando compagnie gradevoli e un mondo in cui avesse avuto un minimo di potere. Il suo sogno fu abbastanza frustrato, perché sulla terra, in un contesto politico ricco di splendide dichiarazioni sui diritti dell’uomo, la legge della giungla e il diritto di prima beccata fu sempre in vigore. Ciò che Martino fece dopo gli anni della scuola non fu diverso dalle vicende vissute da migliaia di impiegati e operai in tutto il mondo: ebbe una moglie simpatica ma possessiva e opprimente e due figli, un maschio e una femmina, dapprima graziosi e gioiosi, poi sempre più ostili e incomprensibili. Infine fu felicemente prepensionato. E ora che gli stava succedendo? Sembrava una fase della vita imprevista e straordinaria: una specie di metamorfosi spaventosa e affascinante. Ma forse era solo ancora un sogno.
“Sarà possibile svegliarsi?” disse tra sé mentre passeggiava lentamente per la stanza, sorretto dalla ragazza, e guardava attentamente le pareti chiare, per capire di quale materiale fossero fatte e se non ci fosse qualche apertura prima sfuggitagli.
Gli tornò in mente l’unica piccola parete spoglia del suo sgabuzzino, anch’essa senza finestre. Su di essa aveva voluto dipingere uno squarcio di campagna, copiandolo da una foto, che gli desse un po’ l’illusione di poter guardare fuori da una finestra: era stato un tentativo solo in parte riuscito di realizzare un ‘trompe l’oeil’. Qui invece il colore era tutto unito: non una macchia.
“Purtroppo non stai sognando, mi dispiace” disse la ragazza. E poi domandò: “Come ti senti?”.
Martino si voltò a guardarla in viso. Gli era molto vicina, e sulla sua pelle non vedeva una piega. E non sentiva emanare da quel corpo alcun odore di donna. Era davvero bella, un po’ più alta di lui. Ma sapeva che non era una donna. Gli sembrava strano che lei s’interessasse al suo stato di salute. Nei giorni trascorsi nel letto dormendo e svegliandosi non aveva sentito né odori, né dolori, né fame, né sete, e neppure alcuno stimolo a defecare o urinare. Tutto questo non era naturale per un uomo, sia pure malato. Carsidia, l’aliena, doveva conoscere esattamente le sue condizioni. Probabilmente essa stessa aveva provocato, chissà in quale modo, forse per mezzo della fleboclisi, quello stato di apatia, di assenza di ogni dolore e di ogni stimolo. Perché gli chiedeva come si sentisse?
“Quando tu fai un viaggio” disse Carsidia “e ti trasferisci in un altro paese con clima e altitudine diversa, le funzioni del tuo corpo vengono alterate. Ti ricordi che spesso, da giovane, quando andavi in villeggiatura, ti prendeva la stitichezza per diversi giorni?”
“Sì, è vero...”
“E qui non è diverso.” continuò “Qui sei come in villeggiatura. A poco a poco le tue funzioni torneranno normali”.
Martino non poteva accettare l’analogia. Qui le cose erano radicalmente diverse.
“Ma qui dove siamo?” chiese.
Il Rostro gridò qualche parola, forse ordini, e se ne andò. Dalla porta, aperta per un attimo, entrò un fascio di luce intensa e un odore, finalmente un odore, sia pure non identificabile.
Martino continuò a chiedere: “Siamo in un altro pianeta, non è vero? Siamo lontani dalla terra?”
“Naturalmente.” Rispose Carsidia “Siamo sul pianeta Saudàr. Questo è il nome nella nostra lingua. Il vostro scienziato che lo avvistò per primo, nella costellazione di Orione, lo chiamò Tau Beta Orionis. E’ qui che vivono, da qualche millennio, quelli come me e quelli come il Rostro”.
“Ah, volevo dire! Siete di specie diversa! Due specie intelligenti sullo stesso pianeta! E dire che in terra si continua a discutere... o almeno di discuteva sulla possibilità che nell’universo esistessero altre forme di vita al di fuori della terra...”. Poi, abbassando la voce: “Dimmi, Cardisia, quelli come il Rostro sono vostri padroni?”.
“Carsidia.” corresse la ragazza, “La parola ‘padroni’ non esiste su Saudàr, e neppure un’altra con quel significato. Noi siamo diversi di forma, di abitudini, di tradizioni, ma viviamo e lavoriamo insieme”.
Un sorriso ironico si disegnò lentamente sul viso di Martino. Forse avrebbe avuto una risposta come quella se avesse intervistato una monachella o un volontario a Serajevo, in Israele, nel Kosovo, in Irlanda, in Cecenia o in molti paesi dell’Africa. E si sa qual’è la fine in terra di ogni tipo di coesistenza tra diverse etnìe. Qui Martino aveva potuto classificare a prima vista il rapporto tra il Rostro e Carsidia, come quello esistente tra un imperioso padrone e la sua segretaria... se in questi termini si può definire qualcosa come il legame tra una cagnolino e il suo padrone.
La ragazza sorrideva con aria innocente. Sembrava tranquilla e certa di quanto asseriva, proprio come una monachella entusiasta della sua missione.
“Non è attendibile.” pensava Martino. “L’hanno mandata a sorvegliarmi per tenermi tranquillo”.
Poi chiese: “Ma in terra ci tornerò più?”.
“Non so. E’ difficile. E’ tutto distrutto”.
“E i miei familiari?”.
“Non so... Si può vedere, tra qualche giorno...”.
“E come?”.
“Con i telescopi di Saudàr puntati sulla terra”.
“Telescopi? Ma siamo lontani anni luce”.
“I nostri sono telescopi aunocromonici a scansione immediata”.
“Au...cronomonici?”
“Aunocromonici. Sfruttano le onde luminose ad altissima velocità... Dicono che sulla terra queste onde non siano ancora conosciute. Ma è lo stesso fenomeno che ci consente di superare in circa un minuto la distanza di un anno-luce”.
In quel momento Martino avvertì finalmente lo stimolo a defecare. Ne fu preoccupato, ma, come un buon malato, informò subito del suo bisogno quella che poteva essere la sua infermiera. Carsidia aprì la porta e lo condusse nell’ambiente attiguo. Martino fu abbagliato dalla luce molto più forte di quella che c’era nella sua camera, ma poté riconoscere una sorta di ampio corridoio con pareti gialline e un paio di alieni che vi passeggiavano vestiti con pigiami simili al suo, ma con diverse sfumature di colori, e con ciabatte leggere simili a quelle che anche lui ora aveva ai piedi. Non ricordava il momento in cui le aveva calzate. Carsidia lo accompagnò verso destra per pochi metri, poi aprì una porta e lo fece entrare in una piccola stanza, in cui l’uomo poté riconoscere qualcosa di simile agli oggetti sanitari terrestri. Fu gentilmente forzato a calarsi i calzoni e a sedersi sull’apertura ovale praticata in un oggetto di forma cubica e gli furono indicati due bottoni da pigiare dopo la defecazione: prima l’uno e poi l’altro. Beh, somigliava all’attrezzatura che si trova nelle latrine degli aerei. Sulla parete di destra, vicino al sedile, c’era una fila di almeno dieci bottoni, oltre a quelli indicati da Carsidia, che intanto era uscita serrando la porta. Martino osservò attentamente tutte le pareti, alla ricerca di qualcosa che somigliasse a un contenitore di carta igienica, ma non lo trovò. Intanto lo stimolo si faceva più impellente e il tappo fecale di almeno tre giorni cominciò ad essere espulso con notevole sforzo e dolore. Ebbe lunghi minuti di tormento, coronati infine dal sollievo liberatorio che si ha in questi casi.
Sui bottoni erano disegnati simboli di colori diversi che Martino cercò di interpretare. In fondo, questi esseri, se avevano costruito una simile attrezzatura, non erano molto diversi dagli uomini. Sul primo bottone indicato da Carsidia figurava in rosso una sorta di piccola doccia rivolta verso l’alto. L’uomo intuì che il bottone avrebbe azionato uno schizzo d’acqua, o di chissà quale liquido detergente, verso la regione anale dell’utente. Non ritenne prudente servirsene senza aver provato a vuoto. Si alzò e premette il bottone. Un circolo di zampilli convergenti al centro scaturì dal contorno interno del sedile e bagnò tutta la zona circostante per almeno mezzo minuto. Il liquido sembrava acqua un po’ tinta d’azzurro, forse disinfettata, e tiepida al tatto. Avendo constatato che la sua mano non si era ustionata, né aveva subito altri danni immediati, al contatto con quel liquido, Martino si decise a detergere le sue parti impure. L’abluzione fu molto confortevole.
L’altro bottone mostratogli portava impressa l’immaginetta di una doccia questa volta rivolta verso il basso. Era di colore bianco su fondo azzurro. Martino capì che questo bottone doveva servire per sciacquare il water. Infatti, quando lo premette, un getto abbondante e violento invase la cavità del cubo, formando un poderoso vortice che man mano scompariva nel fondo.
Ma ora Martino, rimasto con i calzoni abbassati, avrebbe voluto trovare qualcosa per asciugarsi.
“Premi il bottone verde” gli disse la voce di Carsidia da un altoparlante invisibile. Martino si guardò intorno. Forse era osservato con una telecamera.
L’unico bottone verde mostrava un soffio rivolto verso l’alto, ben riconoscibile come soffio, per qualche tratto impercettibile diverso dal getto liquido. Martino lo pigiò e saggiò la forza e il calore del soffio con la mano, prima di affidare a questo nuovo dispositivo le sue parti intime. Quando ci fu seduto sopra e provò un inaspettato sollievo, dovette ammettere la netta superiorità di questo rispetto agli asciugatoi ad aria terrestri. In pochi secondi fu perfettamente asciutto, poté alzarsi, tirarsi su i calzoni e mettersi a osservare gli altri bottoni. Le piccole immagini - un alberello, una specie di siringa, una sedia a dondolo e altre - non erano ben comprensibili, sicché Martino prese a premerli a caso. Uno di essi provocò un movimento oscillatorio di tutto il sedile. Un altro produsse un forte sibilo e l’emissione di un raggio di luce rossa che dal fondo della tazza raggiunse il soffitto: un laser! Martino si spavetò e chiamò Carsidia, mentre quel poco di fiducia che aveva acquistato lo abbandonava di colpo.
Carsidia entrò sorridendo e gli disse: “Sai a che serve il laser?”. E senza aspettare la risposta continuò: “Serve proprio in casi come il tuo: a frantumare le feci indurite”.
“Ma non è possibile!”, protestò Martino, “Ci si può perforare le budella”.
“Beh, non succede mai una cosa simile. Noi usiamo il laser, quando è necessario, da secoli”.
“Io preferirei non provarlo” concluse Martino. E uscì d’impeto nel corridoio. Qui gli tornò in mente l’amico che, secondo Carsidia, sarebbe stato salvato insieme a lui. Chiese di vederlo. Carsidia si mostrò imbarazzata. “Ho sbagliato” disse “Nessun amico era con te”.
“Come è possibile? Come hai potuto sbagliare?” chiese Martino allarmato.
Una frase nella incomprensibile lingua... rostrese tuonò dal fondo del corridoio. Era lui, il Rostro. Carsidia afferrò la mano destra di Martino e lo tirò verso la fonte del vocione tonante. Ancora una volta Martino fu sorpreso dalla forza della fanciulla. Volle provare a resisterle, ma si rese conto subito di essere notevolmente più debole di lei. Forse le conseguenze della sua malattia non erano finite. Mentre lo trascinava, Carsidia si voltò verso lui e disse: “Vieni, andiamo a pranzo”.
Già. Dopo la defecazione in una perfetta latrina aliena, il pasto alieno non poteva mancare.
“Vieni, vieni. Vedrai com’è bello”.
Anche l’idea del pasto entusiasmava la ragazza. Martino interrogò il suo stomaco. Forse avrebbe mangiato volentieri qualcosa... ma qualcosa di terrestre, di italiano: spaghetti al pesto, al pomodoro, alle vongole, riso e fagioli, pollo alla diavola, orata al forno, insalata mista, melone, vino rosso, zuppa inglese. Gli erano venute in mente le migliori vivande della terra. Ma qui che cosa gli avrebbero offerto? Topolini vivi, vermi, formiche e ortica cruda?
Mentre passava per il lungo corridoio, tirato come un cagnolino al guinzaglio, si guardava intorno. C’erano porte chiuse e aperte. Qualcuno stava sull’uscio a guardare. Quelli che si mostravano erano tutti rostri: molto brutti, repellenti, ma dallo sguardo pacifico. Gli sembrò perfino che qualcuno accennasse a un saluto. Uno aveva intorno al collo qualcosa come una sciarpa di pelliccia. Ma gli sembrò che si muovesse come un piccolo animale: una donnola o un ermellino vivo! Non ebbe il tempo di accertarsene.
Girarono l’angolo in gran fretta e si trovarono in un enorme refettorio brulicante di rostri e qualche femmina di creature meravigliose simili a Carsidia. Guardando meglio riconobbe due o tre maschi di Carsidia, molto simili alle femmine, ma con tratti leggermente più virili.
Alcuni della folla si fermarono a guardare lo straniero, alieno per loro, accompagnato dalla bellissima infermiera-angelo. Ma la stragrande maggioranza di quella moltitudine vociante - due o trecento persone (persone?)  in un salone enorme - badavano solo al loro pasto. Martino trovò quasi osceno il loro modo di mangiare. Ognuno dei rostri chinava il capo, immergeva il lungo naso in una scodellina e allungava le labbra per sorbirne il contenuto; poi risollevava il capo, visibilmente soddisfatto, e riprendeva a vociare. Il cibo era una poltiglia gialla simile a polenta, o a budino, o a... vomito. Il naso, quando si sollevava dalla poltiglia, ne rimaneva imbrattato. Qualcuno se lo puliva con un fazzoletto che poi gettava in una cestino.
Da uno dei quattro lati della gran sala, dove Carsidia condusse Martino, c’era un fila di almeno dieci macchine metalliche simili a grandi lavatrici: distributori di cibo in poltiglia.
“Digli la tua ordinazione” disse Carsidia indicando una delle macchine.
“Come?” fece Martino stupefatto. E si guardò intorno per vedere gli altri che cosa facevano. In effetti ogni rostro alzava la voce davanti alla sua lavatrice. Qualcuno persino la prendeva a pugni. Tutto il cosmo è paese, pensò, ricordando il comportamento umano davanti a una macchina del caffè. E, tanto per provare, con scetticismo e ironia esclamò: “Spaghetti al pesto!”.
La macchina prese a ronzare come un calabrone. Alla fine sul bordo superiore comparve una scritta luminosa in caratteri saudarici che, secondo Carsidia, diceva: “Spiacente, cibo esaurito”.
La ragazza voleva spostarsi ad un’altra macchina, ma il terrestre, già rassegnato da prima, le chiese di ordinare due immonde poltiglie.
La fanciulla, ignara, credendo che l’uomo avesse rinunciato volentieri ai suoi spaghetti, convinto dalla vista di quei manicaretti gialli, volle accontentarlo. Ritirò le due porzioni e si avviò ad un tavolo.
Il piatto di Martino era più grande e conteneva una quantità doppia di poltiglia.
“Perché?” fece Martino indicando le due scodelle quando furono appoggiate sul tavolo.
“Ah!” disse Carsidia, “La macchina rileva il fabbisogno alimentare di ogni soggetto. Si vede che tu hai bisogno di nutrirti molto più di noi”.
Il sapore era degno dell’aspetto. L’uomo dovette sforzarsi per mandarne giù qualche sorso, portando la scodella alle labbra. Poi la sua buona volontà si esaurì. Abbandonò il piatto e si mise ad osservare Carsidia. Vide che lei non usava il naso come i rostri: mangiava come farebbe una donna sfornita di posate. Quando la ragazza si accorse che l’uomo la stava osservando, appoggiò il suo piatto e sorrise. Qualche goccia di quel collante giallo si era fissata ai suoi denti. Poi la donna vide il piatto dell’uomo ancora pieno e disse: “Non hai mangiato quasi nulla. Perché?”.
“Mi dispiace” disse Martino con tutta la gentilezza che riuscì a trovare in quel momento, “I gusti umani in fatto di cibo sono molto diversi dai vostri”.
“Ma devi nutrirti, in un modo o nell’altro. Se non lo fai così, stasera dovrai di nuovo applicarti il laccio della flebo”.
Non era poi così fastidioso il laccio della flebo, senza neppure l’ago che qui usano, o usavano, solo per cucire. Tuttavia Martino, accattivato dalla ragazza che si atteggiava a sollecita infermiera o a mamma amorevole, si fece forza, portò di nuovo il piatto alla bocca e trangugiò altri sorsi di poltiglia. Quando fu arrivato a metà, temendo di essere assalito da conati di vomito, lasciò il piatto sul tavolo e si alzò, deciso a non continuare. Anche la ragazza si alzò per seguirlo, e si avviarono insieme verso l’uscita del refettorio.
Il cibo quasi immangiabile lo preoccupava.
Come era fatto questo mondo? Dove si prendevano gli ingredienti per preparare la poltiglia? Il componente principale sembrava granoturco, ma più fine, più viscido. Da qualche parte dovevano esserci campi di granoturco o di qualcosa di simile. Ma esistevano piante e animali su questo pianeta? L’aria c’era: lui la respirava. Ma c’era una stella simile al sole? Doveva esserci... Bisognava uscire assolutamente.
Si accorse di avere accelerato e che questa volta Carsidia lo seguiva. Si voltò senza fermarsi e disse: “Voglio uscire, voglio uscire. Voglio vedere com’è fatto questo mondo. Io qui sono praticamente morto. Voglio rinascere”.
Carsidia lo guardava, visibilmente preoccupata.
“Dimmi dov’è l’uscita” continuò Martino sempre camminando in direzione della sua stanza, perché aveva avuto l’impressione che da quella parte del corridoio ci fosse più luce, luce naturale, e quindi, forse, l’uscita.
“Aspetta” disse Carsidia affrettandosi per raggiungerlo, “Devi riposarti un poco. E poi devi indossare un vestito adatto alla temperatura esterna. Adesso siamo in inverno”.
“Ah! Che temperatura?”
“Fa freddo. Forse dieci gradi centigradi”.
“Va bene. Procurami un vestito adatto”.
La ragazza si fermò, subito imitata dall’uomo, estrasse un telefonino da una tasca - una tasca in quella veste angelica! - e parlò in lingua saudarica. Il Rostro le rispose sbraitando.
“Dice che è troppo presto per uscire. Dovresti riposarti almeno altri due giorni. E naturalmente dovresti nutrirti meglio”.
“L’avevo capito. Il Rostro è il tuo capo”.
“Non è il mio capo!” rispose un po’ offesa, “Io sono d’accordo con lui”.
“Io mi sento bene” disse Martino, “Ho solo bisogno di uscire, di vedere che c’è fuori di qui e magari di cercare un po’ di cibo decente o almeno lontanamente somigliante a quello che sulla terra sono abituato a mangiare... E poi voglio sapere la verità. Voglio sapere cosa è successo al mio mondo, ai miei familiari...”.
Fu assalito dall’emozione, gli venne quasi da piangere e strinse i denti.
La ragazza dovette accorgersene, perché subito si prodigò in una carezza materna.
“Va bene” disse, “Adesso andiamo a riposarci. Domani mattina, dopo colazione ti porto fuori”.
Che voleva dire “andiamo a riposarci”? Martino la osservò da vicino e cominciò a considerarla come un perfetto esemplare di individuo dell’altro sesso. Ma quella pelle innaturalmente liscia lo imbarazzava. Inoltre la situazione in cui si trovava non era proprio quella adatta per le avventure amorose. Aveva cinquant’anni e, fino a qualche giorno prima, aveva una moglie e due figli da accudire. La sua mente era ovviamente tutta occupata dai ricordi e dalle preoccupazioni per la famiglia, anche se la nuova situazione lo costringeva a temere per la propria sorte individuale e a dibattersi in mezzo a una caterva di dubbi. Che tipo di vita futura gli rimaneva? Quale probabilità aveva di tornare a casa? E intanto che cosa avrebbe mangiato e bevuto? Come avrebbe fatto a sopravvivere con quella poltiglia? E l’amico, l’amico a cui Carsidia aveva accennato - e poi si era evidentemente pentita di averne parlato - c’era o non c’era? E perché, quando aveva chiesto la ragione per cui il suo computer era stato portato nella sua stanza ed era stato acceso, il Rostro si era arrabbiato? A proposito, il computer era forse rimasto ancora acceso?
Pensando a questo, Martino si decise a percorrere gli ultimi metri che lo separavano dalla sua stanza, questa volta subito preceduto dalla ragazza.
Quando entrò vide che il suo computer era spento. Meno male. Era abituato a cercare sempre di evitare gli sprechi. Ma sul pianeta Saudàr quanto costava l’energia elettrica?
Lo chiese a Carsidia, ma la ragazza lo guardò con aria stupita. Sembrò che non capisse. Poi corrugò leggermente la fronte in uno sforzo di comprensione e disse: “Pagare... pagare... è questo il verbo che ho spesso sentito usare sulla terra... adesso ricordo... Qui non si usa. E non esiste un vocabolo equivalente”.
“Come? Perché?” si stupì a sua volta Martino.
“Perché qui non esiste il commercio. Ho saputo che in terra la civiltà è fondata sul commercio. So pure che la civiltà commerciale rappresenta un enorme progresso rispetto a quella precedente che si basava sulle guerre e sulla rapina. Ma qui è diverso. Tu, Granchio, dovresti averlo capito...”
“Perché mi chiami Granchio?... Non sono molto contento di questo soprannome”.
“Perché, come Granchio, hai la tenacia adatta a comprendere fino in fondo la vera sostanza delle cose...”
“Non so niente di questo pianeta, lo sai. Quello che dici, l’inesistenza del commercio, scusa, ma mi sembra incredibile... Potrebbe essere un tuo punto di vista personale... E comunque, anche se fosse vero, un valore alle cose bisogna pur darlo. Non credo che voi abbiate infinita disponibilità di ogni bene. A meno che questo... non sia un paradiso... E’ vero. Tu hai l’aspetto di un angelo... Insomma, la tua testimonianza non è sufficiente. Per conoscere bene le vostre usanze dovrei vivere qui almeno un paio di mesi, vedere tutto e parlare con la gente”.
L’espressione di Carsidia, a quelle parole, si sarebbe detta imbronciata.
“Non ti offendere” riprese Martino “Qui per me è tutto nuovo. E’ proprio un’altra vita. Devo abituarmi. Ma forse non sarà necessario, se voi mi riporterete sulla terra”.
“Ti ho già detto che non so se sarà possibile. In ogni caso ti farà bene passare qualche giorno con noi, con me”.
“Perché proprio con te? Sei stata incaricata di custodirmi?”
Ancora una volta Carsidia sembrò offesa. Però non perdeva mai la calma né la dolcezza.
“Se vuoi... quando le avrai conosciute... potrai scegliere un’altra accompagnatrice... oppure un accompagnatore...”.
“No, cara, non è questo il mio problema. Tu sei dolcissima e gentilissima. Ti ringrazio per questo... Se mi fossi trovato di fronte solo il Rostro... Ma io vorrei sapere solo chi sei, qual è il tuo incarico e come siete organizzati qui... E vorrei anche sapere che cosa sono io per voi: un animale?”.
“Sai” fece Carsidia spingendolo verso il letto, “io ho studiato per molti anni la vita sulla terra. Ho osservato gli esseri che brulicano su quel pianeta, ho sentito le loro voci, ho capito quali specie fossero intelligenti, quali parlassero e, alla fine ho imparato la vostra lingua...”.
Martino non poté trattenersi dal ridere.
“Scusa, scusa” disse vedendo che la ragazza ci rimaneva male “Rido perché esiste una sola specie parlante: l’uomo. E le lingue che si parlano sono moltissime... Però ho capito che tu devi conoscerne più d’una...”.
“Certo. Le conosco tutte... All’inizio non ricordavo bene la tua nazionalità... Ma non esiste una sola specie parlante...”.
Martino la guardò stupefatto e incredulo. Gli sembrava una cosa impossibile conoscere tutte le lingue della terra, anche per una saudariana di intelligenza superiore. E quali altre specie parlanti aveva visto sulla terra? Forse i delfini, ma i loro fischi non possono definirsi parlare.
Intanto, spinto da Carsidia, si era seduto sul letto. Si rialzò e fece un giro lungo le pareti, meditando.
“Voi siete una specie molto più evoluta di noi” disse l’uomo “E’ evidente. Dovete avere un cervello infallibile. Per un uomo, anche molto intelligente - per me, poi, che sono negato per le lingue - è impossibile conoscere tante lingue. Certe volte si conoscono ma non si sanno parlare...”.
“Non è una questione di cervello” disse Carsidia “Noi ormai abbiamo strumenti di precisione che ci permettono prima di memorizzare e poi di tradurre ad una velocità sufficiente ad affrontare qualunque conversazione”.
Martino la squadrò da capo a piedi. Aveva un computer? E dove? Già, poteva essere piccolissimo, come un orecchino o un anello, ma lei non aveva gioielli. Già, probabilmente era nascosto sotto il vestito. Ma come poteva utilizzarlo? Aveva un auricolare? No. Ah, forse lenti a contatto!
Le guardò gli occhi con attenzione. Quel colore incredibile verde-azzurro brillante e diafano era naturale? E se aveva lenti a contatto con un computer incorporato, come poteva servirsene? Nel momento in cui usava gli occhi per leggere i messaggi del computer doveva perdere la visione del mondo circostante. Ma quegli occhi cerulei non sembravano mai estraniarsi e, in quel momento, stavano fissando proprio lui, con attenta gioiosa benevolenza.
Si sedette ancora sul letto. Si sentiva di nuovo stanco. Si distese sotto le coperte e si addormentò. 


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