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IL DANNO E LE BEFFE?

(di Cira Almenti - Estate 2018)
scorpio



«Mi ha insultato, mi ha aggredito,
mi ha ingannato, mi ha derubato.»
Se coltivi questi pensieri
vivi immerso nell'odio.
(Dhammapada)



Ci avete fatto caso? E’ (quasi) sempre la vittima che si ammala. Chi subisce a lungo prepotenze, minacce, angherie. Chi deve cedere il posto al raccomandato di turno, chi vede fallire la propria ditta, chi deve sopportare a vita un marito o una moglie, figli, genitori,suocere o nipoti incontentabili, possessivi, gelosi, polemici e quant’altro. Chi ingoia rospi si ammala e chi dà in escandescenze anche. Le coronarie chiudono i cancelli, cedono i cervelli, i reni arrancano, sfrigolano i fegati delle vittime, sale la pressione, appaiono qua e là masse e bitorzoli. Anche i traumi repentini, che si tratti di violenza o di alluvioni, si lasciano dietro la temibile sindrome post-traumatica. Naturalmente per potersi ammalare non basta essere vittima; a volte non c’è nemmeno bisogno di esserlo, ma bisogna sentirsi tale, checché ne pensi chiunque altro.

Ricordate lo shakespeariano Macbeth, che, perso il controllo della sua ambizione, aveva ucciso il suo beneamato signore e fatto uccidere amici e colleghi? La coscienza non gli dava tregua, era diventato re di Scozia ma aveva ucciso il sonno – bei tempi! Macbeth era un galantuomo a paragone dei cattivi odierni, che dormono il sonno del giusto mentre il giusto, braccato dalle preoccupazioni, si rigira nel letto ingoiando calmanti. Tra insonnia e farmaci, ti saluto salute. Al prepotente in capo salta il ventricolo sinistro solo qualora, troppo avvezzo a starsene apollaiato in cima alla gerarchia, venga spodestato da un prepotente più prepotente di lui. Succede ogni tanto ai vecchi maschi alfa, ma non vale la pena stare ad aspettare che ogni prepotente venga detronizzato per poter finalmente ballare sulla sua tomba.

Non scrivo tutto ciò per esortarvi ad invocare l’idolo tribale dei vostri padri affinché stermini tutti i vostri nemici e faccia polpette dei loro discendenti, cani, gatti e pesci rossi. Nemmeno voglio esortarvi alla rassegnazione. Unirci e lottare? El pueblo unido, quello che jamàs serà vencido, è unido solo nei sogni di qualche ingenuo utopista. El pueblo vero è formato da un mucchio di persone che diffidano le une delle altre, che hanno scopi diversi e diversi gradi di disperazione, depressione e malattia. Qualora riescano ad unirsi formano per breve tempo una specie di armata Brancaleone destinata a scompaginarsi come un nuvolone estivo – oppure a far da rampa di lancio a un nuovo prepotente che spodesterà l’antico. Cambiano i giocatori ma non cambiano le regole del gioco. I prepotenti DOC sono pochi ma invulnerabili, hanno poche idee ma chiare, hanno ragione anche quando hanno torto e non ne dubitano mai, sanno negare l’evidenza e sono capaci di manipolare sottilmente gran parte del pueblo mettendo zizzania al posto ed al momento giusto, ragion per cui le vittime, qualora prendano coscienza di esserlo e desiderino farsi valere, si troveranno sempre in minoranza.

Manipolare non richiede grande intelligenza o piani dettagliati. La manipolazione spicciola è l’arte di tutti i prepotenti, siano essi mogli, mariti, genitori, piccole pesti, colleghi, condòmini, capufficio. Il vero prepotente sa fare la vittima per sfruttare il senso di colpa delle sue vittime: “Ho fatto tanto per voi e non ricevo che ingratitudine” oppure “E’ colpa vostra se sono così infelice”. Lo fa per istinto fin dalla più tenera età, a volte crede davvero a quel che dice, e allora, sentendosi vittima, può ammalarsi come un poveraccio qualunque. Osservatelo attentamente e scoprirete il meccanismo. La manipolazione a livello planetario, con i mezzi della comunicazione di massa, nasconde certamente un piano ma funziona in base agli stessi ricattucci e puntigliucci che intercorrono nelle relazioni sociali fra bambini dell’asilo. E’ come bambini dell’asilo che ragioniamo e sentiamo (quasi) tutti: vittime, mezze vittime (vittime in ufficio e carnefici a casa o viceversa) e carnefici (quasi tutti in politica).

E allora?
Lottare o non lottare? Il dilemma non è questo: ci si può ammalare sia lottando che isolandosi.
Ammalarsi o non ammalarsi, questo è il dilemma. E’ possibile smettere di ammalarsi e addirittura smettere di essere vittima senza bisogno di bandire una crociata o di pagare un killer?

Non è eliminando un fetente che sarò felice: ci sarà sempre un altro fetente pronto a sostituirlo. Sarò felice quando il fetente in carica non riuscirà a farmi sentire meno felice di come sarei se lui non esistesse. Cercherò l’unione che (non) fa la forza e combatterò, se è possibile, per dovere verso la società, pur sapendo che vince sempre il peggiore. Perderò la battaglia, ma non la salute e l’allegria.

Attenzione, non ho la minima intenzione di perdonare chi fa di tutto per schiacciarmi. Scapperò, morderò, pungerò e ucciderò se ci riesco. Solo chi è in grado di vendicarsi è in grado anche di perdonare, lo pseudoperdono del debole che non riesce nemmeno a difendersi è pura ipocrisia, e per di più autorizza i forti a far come gli pare. Non è però il caso di perdere il sonno pensando alle ingiustizie subite: ciò a cui pensi si carica della tua energia. E’ così che i media rinforzano indefinitamente la posizione di tante nullità che, se non fossero eternamente presenti alla coscienza di milioni di persone, sprofonderebbero nel nulla. Senza perdoncini melensi e senza rancori ossessivi, se non posso far cessare uno stato di ingiustizia posso però evitare che mi trasformi in un relitto pensandoci e rimuginando.

Non voglio consolarmi con la fola che i bulli siano persone prive di autostima. Coloro che vedo approfittare della debolezza altrui hanno autostima da vendere. Se poi sia vera o falsa, solo il loro analista lo sa. Noi vittime sicuramente tendiamo a non averne o a perderla al primo soffio di vento. Dobbiamo imparare a tenerla con i denti, così come la tengono i nostri “caporali”, di qualsiasi bassezza si infanghino. Noi vittime non possiamo infangarci più di tanto perché abbiamo scrupoli, e se cercassimo di imitare i prepotenti faremmo ridere i polli e tradiremmo la nostra natura. Mi guardo bene dall’illudermi che dentro ogni prepotente ci sia un Macbeth tormentato dai rimorsi. I prepotenti che conosco sono, o fingono egregiamente di essere, ignari & dimentichi della scia di sofferenza e di rancore che si tirano dietro, e ritengono di agire a fin di bene se non “in spirito di servizio”. Se siano felici o se si sentano in pericolo oppure vittime dell’ingratitudine universale, solo il loro analista lo sa.

Per tornare a Shakespeare, Amleto non riuscì a vendicare il torto che aveva subito senza farla pagare anche all’innocente fidanzata Ofelia e senza rimetterci la ragione e la pelle. Fece ciò che sentiva di dover fare e rimase vittima anche nella rivalsa. Se vogliamo essere una vittima che si rivale, seguiamo Amleto. Se vogliamo smettere di essere vittima la via è un’altra, molto meno tortuosa ma assai più ripida.

C’è una grande saggezza nascosta nell’espressione “non prendersela”. Non è affatto un consiglio banale; “Non prendertela” vuol dire “lasciagliela lì”. Lasciagli lì la malattia, la depressione, la paura. Lasciare lì al prepotente tutto il malessere che vorrebbe scaricarci addosso per riconfermarsi nel potere sui più deboli è come sottrargli il pane quotidiano. Sorridere con autentica indifferenza a chi urla e strepita per spaventarci vuol dire lasciargli lì la tachicardia che sta cercando di suscitare in noi. E’ contro le regole del gioco: nel gioco all’azione x corrisponde sempre la reazione y: tu mi fai arrabbiare e io mi arrabbio, tu fai la vittima e io mi sento in dovere di accontentarti. Ma se tu mi fai arrabbiare e io non mi arrabbio, se tu fai la vittima e io ti lascio bollire nel tuo brodo hai perso la presa, non sono più una marionetta. Chi non sa di star giocando non smette di giocare e rispetta le regole, chi si accorge che il gioco è solo un gioco, e per di più cretino, può smettere di giocarlo, o giocarlo a modo suo. Possiamo addirittura lasciare lì alle istituzioni infradiciate il potere di farci saltare i nervi rendendoci la vita sempre più complicata, possiamo riempire l’ennesimo modulo senza perdere tempo a lamentarcene, adattarci al cambiamento senza lasciarcene trascinare, fare con calma quello che possiamo senza perdere mai la consapevolezza che la vita è teatro, sogno, gioco di ombre su uno schermo gigante messo lì a nascondere la realtà.

La realtà non si vede – è troppo vicina a noi – non fa rumore, è incommensurabile con le emozioni che ci fanno rotolare avanti e indietro come ciottoli sulla battigia, privi di volontà e discernimento.
Tutto ciò che fa parte del gioco ha lo stesso valore, perciò perso un lavoro o un amante se ne può trovare un altro, o meglio ancora si può trovare la propria identità. Se non ci attacchiamo come balani all’ostrica a quel lavoro che non c’è più, a quella persona che si è rivelata diversa da quel che credevamo, qualsiasi cosa si perda può aiutarci a trovare l’unica cosa che ci serve per non ammalarci e non soffrire: la saggezza.

Chi tiene il coltello dalla parte del manico vive dell’omaggio altrui, alla superficie delle cose; la saggezza non gli interessa, non la cerca e non la trova. Forse sta bene come sta, forse no, ma finché ha il manico in mano resta fermo dov’è. Forse ricco e rispettabile, ma imbecille stabile.

Chi si trova il coltello dalla parte della lama, invece, non sta bene come sta e non ha molte alternative: trovare la saggezza o perire di una delle molte malattie di cui si può ammalare chi ha le emozioni sottosopra. La giustizia non arriverà mai o non arriverà in tempo. Alcuni trascorrono la vita nell’odio, passando da una vana battaglia a un’inutile guerra, rimpiangendo ciò che hanno perso e maledicendo tutti quelli che gli stanno sopra.

Togliere la spina al pensiero ostile che gira e rigira intorno all’ingiustizia, rendere irrilevante la persona che ci ha fatto un torto (eventualmente con l’aiuto di qualsiasi tecnica che funzioni, dai fiori di Bach all’EMDR Nota 1), prendere l’onda di fronte così come viene. Se cerchi di scappare dall’onda e le offri il fianco – splash! ti si rovescia la barca. Tieni saldo il timone e non alzarti in piedi a strillare e gesticolare contro la tempesta, se non vuoi finire a mollo. L’unica è stare fermi al centro della barca, in equilibrio, e lasciarsi passare le onde sotto. La saggezza è supremo equilibrio, rimane al centro di qualunque situazione, anche la più caotica, impietosamente consapevole di ogni sfumatura di emozione, dalla più sottile alla più violenta.

San Francesco nei Fioretti la racconta a modo suo, e come esempio di “perfetta letizia” descrive la situazione di due frati, bagnati, infreddoliti ed accolti a legnate. Detta così, la perfetta letizia odora di masochismo, ma forse Francesco, pur tra gli eccessi di un’epoca iperemotiva quanto la nostra e nonostante il ricatto implicito nel dover “offrire le proprie sofferenze” (adesso) in cambio di quelle del dio incarnato (2000 anni fa), aveva colto un barlume di questa imperturbabile saggezza, sempre lieta anche fra pioggia e legnate. Personalmente preferisco i saggi dell’oriente che, senza far leva sui sensi di colpa, ci spiegano per filo e per segno come prendere atto delle emozioni che riempiono il cuore e come lasciarle defluire. Il cuore funziona bene solo se è vuoto.

Il vuoto del cuore ci permette di non portarci dietro nemmeno una busta della spazzatura del mondo, ma non è accessibile senza tecnica e senza pratica. La mente va esercitata come un muscolo, tutti i giorni e tutte le notti, per raggiungere il baricentro dell’esistenza. La maggior parte delle vittime non lo sa o non ha voglia di cambiare e soccombe, ma d’altra parte la via stretta e ripida della perfetta letizia si apre solo a noi che abbiamo il privilegio di essere vittime.



Cira

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